"E il vostro intendente è pure uno della Nubia,  un muto?" domandò

      Debray.

      "No, signore, è semplicemente un vostro compatriota, se un corso è

      compatriota di qualcuno; ma voi lo conoscete, signor di Morcerf."

      "Sarebbe per caso quel bravo  Bertuccio,  che  è  così  esperto  a

      prendere in affitto le finestre?"

      "Precisamente,  e lo avete visto da me quel giorno ch'ebbi l'onore

      di avervi a colazione. E' un bravissimo uomo,  un po' soldato,  un

      po' contrabbandiere, un po' infine di tutto ciò che si può essere.

      Non  giurerei  che  non abbia avuto qualche intrigo colla polizia,

      per una miseria, qualche cosa di simile ad un colpo di coltello."

      "Ed avete scelto quest'onesto  cittadino  del  mondo,  per  vostro

      intendente,  signor  conte?" disse Debray.  "E quanto vi ruba ogni

      anno?"

      "Ebbene, parola d'onore" disse il conte,  "niente più di un altro,

      ne sono sicuro; ma mi conviene, per lui nulla è impossibile, ed io

      lo tengo."

      "Allora" disse Chateau-Renaud, "eccovi con una casa montata; avete

      un'abitazione agli Champs-Elisées,  domestico,  intendente: non vi

      manca più che una moglie."

      Alberto sorrise;  pensava alla bella greca veduta  nel  palco  del

      conte al teatro Valle, e al teatro Argentina.

      Da lungo tempo erano passati alla frutta e ai sigari.

      "Mio caro" disse Debray alzandosi, "sono le due e mezzo, il vostro

      convito  è  delizioso,  ma non vi è buona compagnia che non si sia

      obbligati a lasciare,  e qualche  volta  anche  per  una  cattiva:

      bisogna che torni al Ministero.  Parlerò del conte al ministro,  e

      bisognerà bene che scopriamo chi sia."

      "Astenetevene" disse Morcerf, "i più maligni vi hanno rinunciato."

      "Bah,  noi abbiamo tre milioni per la nostra polizia;  è vero  che

      sono  quasi  sempre spesi in anticipo;  ma non importa: resteranno

      sempre un cinquantamila franchi da impiegarsi in questo".

      "E quando saprete chi è, me lo direte?"

      "Ve lo prometto. Arrivederci, Alberto. Signori, servo umilissimo."

      Ed uscendo, Debray gridò ad alta voce:

      "Fate venire la carrozza!"

      "Beh" disse Beauchamp ad Alberto,  "io non andrò alla  Camera,  ma

      avrò  da  offrire  ai miei lettori molto di meglio che un discorso

      del signor Danglars."

      "Di grazia, Beauchamp" disse Morcerf,  "neppure una parola,  ve ne

      supplico;  non mi togliete il merito di presentarlo, e di renderlo

      noto. Non è vero ch'egli è interessante?"

      "Anche molto di più"  rispose  Chateau-Renaud:   veramente  uno

      degli  uomini  più  straordinari che abbia mai veduto in vita mia.

      Venite, Morrel."

      "Solo il tempo di dare il mio biglietto al signor conte, che vorrà

      promettermi di venire a farci una visita, rue Meslay, numero 14."

      "State sicuro che non mancherò,  signore..." disse inchinandosi il

      conte.

      E Massimiliano Morrel uscì col barone di Chateau-Renaud, lasciando

      Montecristo solo con Morcerf.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                 Capitolo 40.

                              LA PRESENTAZIONE.

 

 

      Quando Alberto si trovò solo con Montecristo, gli disse:

      "Signor  conte,  permettetemi  di  esordire  nel  mio  compito  di

      cicerone  col  farvi  la  descrizione  dell'appartamento  di   uno

      scapolo.  Abituato ai palazzi d'Italia,  non sarà piccola sorpresa

      per voi calcolare in quanti piedi quadrati può vivere  un  giovane

      che  passa per non essere male alloggiato.  Passando da una camera

      all'altra apriremo le finestre, perché possiate respirare."

      Montecristo conosceva già il salotto,  e la  sala  da  pranzo  del

      piano terreno.  Alberto lo condusse prima nel suo studio: ciascuno

      si ricorderà che questa era la stanza prediletta d'Alberto.

      Montecristo era un  valente  conoscitore  di  tutte  le  cose  che

      Alberto   aveva  ammassate  in  questa  stanza:  antichi  scrigni,

      porcellane del Giappone,  stoffe d'Oriente,  specchi  di  Venezia,

      armi di tutti i paesi del mondo.  Ogni cosa gli era famigliare,  e

      al  primo  colpo  d'occhio  riconosceva  il  secolo,   il   paese,

      l'origine.  Morcerf  aveva creduto di dover tutto spiegare,  ed al

      contrario faceva sotto la direzione del conte un corso completo di

      archeologia, mineralogia, e storia naturale.

      Discesero quindi al primo piano.

      Alberto introdusse  il  suo  ospite  nella  sala  da  ricevimento,

      tappezzata di capolavori dei moderni pittori.  V'erano paesaggi di

      Dupré dai lunghi canneti,  gli alberi  slanciati,  le  vacche  che

      pascolavano sotto un cielo stupendo;  cavalieri arabi di Delacroix

      coi  lunghi  bornous  bianchi,   i  cinti  brillantati,   le  armi

      damaschine,  i  cavalli  che  si mordevano con rabbia,  mentre gli

      uomini si laceravano colla mazza di ferro;  vi erano acquarelli di

      Boulanger,  che  rappresentavano tutti Notre-Dame di Parigi con un

      vigore degno d'un poeta;  quadri di Dias che fa i fiori più  belli

      dei  fiori,  il  sole  più brillante del sole;  disegni di Duchamp

      coloriti quanto quelli di Salvator Rosa, ma più poetici;  quadri a

      pastello di Giraud e di Muller che rappresentavano fanciulli colle

      teste da angeli, e donne colle sembianze di vergini; abbozzi tolti

      dall'album  di  Dauzats  nel  suo viaggio in Oriente,  fatti colla

      matita,  in pochi secondi stando o sulla sella di un  cammello,  o

      sulla  cupola  di  una  moschea:  finalmente  tutto ciò che l'arte

      moderna può dare in cambio ed in compenso  dell'arte  perduta  dei

      secoli passati.

      Alberto supponeva di potere, almeno questa volta, mostrare qualche

      cosa di nuovo al suo strano viaggiatore ma con sua grande sorpresa

      questi,  senza  aver  bisogno di guardare le firme,  di cui alcune

      segnate soltanto colle iniziali, a ciascun'opera assegnava il nome

      dell'autore,  e in modo tale che era facile  accorgersi  che,  non

      solo gli erano noti i nomi di questi autori,  ma che le loro opere

      erano state studiate ed apprezzate giustamente da lui.

      Da questa sala si passò alla camera da letto.

      Era un modello di eleganza e di gusto severo: là non c'era che  un

      solo   ritratto,   ma   firmato   col  nome  di  Leopoldo  Robert,

      risplendente in una cornice d'oro massiccia.

      Questo quadro attirò subito l'attenzione del  conte,  perché  fece

      subito tre passi rapidi ed andò a fermarsi davanti ad esso.

      Era  quello  di una donna giovane di venticinque-ventisei anni col

      colorito  bianco,   sguardo  acuto,   velato  sotto  una  palpebra

      languente; portava il costume pittoresco delle pescatrici catalane

      colla  giubba  rossa e nera,  e gli spilli faccettati nei capelli;

      guardava il mare, e l'elegante profilo si staccava sopra il doppio

      azzurro delle onde e del cielo.

      La luce della camera era fioca,  se no Alberto si sarebbe  accorto

      del pallore livido sulle guance del conte,  ed avrebbe scoperto il

      fremito che gli sfiorò le spalle ed il petto.

      Vi fu un momento di silenzio,  nel quale Montecristo  restò  fisso

      coll'occhio sulla pittura.

      "Voi  avete  qui una bella amica,  visconte" disse Montecristo con

      una voce perfettamente tranquilla,  "e questo costume,  certamente

      da ballo, le sta a meraviglia."

      "Ah,  signore, ecco uno sbaglio che non vi perdonerei, se vicino a

      questo ritratto ne aveste veduto qualche altro.  Voi non conoscete

      mia  madre,  signore;  è lei che vedete in questo quadro.  Si fece

      ritrarre così sette o otto anni fa.  Questo costume è di fantasia,

      a quanto pare, e la somiglianza è tanto grande, che mi pare sempre

      di  vedere  mia  madre  quale era nel 1830.  La contessa fece fare

      questo ritratto in assenza del  conte.  Senza  dubbio  credeva  di

      preparargli una dolce sorpresa per il ritorno.  Ma, cosa bizzarra,

      questo ritratto dispiacque a mio padre; e il merito della pittura,

      che come vedete è una delle più belle opere  di  Leopoldo  Robert,

      non poté vincerla sulla sua antipatia. E' vero, sia detto fra noi,

      mio caro signor conte, che mio padre è uno dei pari più assidui al

      Lussemburgo,  un  generale  rinomato  per  la  strategia,  ma è un

      conoscitore d'arte dei più mediocri. Non così però mia madre,  che

      dipinge in un modo notevole,  e che, stimando troppo questo lavoro

      per separarsene del tutto,  l'ha regalato a me,  perché qui  fosse

      meno esposto a dispiacere al signor Morcerf, di cui vi farò vedere

      a suo tempo il ritratto dipinto da Gras.

      "Perdonatemi  se  vi parlo in tal modo di cose intime di famiglia;

      ma siccome avrò l'onore di presentarvi fra momenti  al  conte,  vi

      dico  tutto ciò,  perché non vi abbia a sfuggire qualche elogio di

      questo quadro in sua presenza.  Del resto però,  il quadro ha  una

      ben  triste  influenza:  è difficile che mia madre venga in camera

      mia senza fermarsi a contemplarlo,  e più difficile ancora che  lo

      contempli  senza  piangere.  La  nube  che portò questa pittura in

      famiglia,  è del resto la sola che sia insorta fra il conte  e  la

      contessa,  che,  sebbene maritati da più di venti anni, sono uniti

      come se fosse il primo giorno."

      Montecristo vibrò una rapida occhiata ad Alberto, come per cercare

      un fine nascosto nelle sue parole,  ma era evidente che il giovane

      le aveva pronunciate con tutta semplicità.

      "Ora" disse Alberto,  "avete visto tutte le mia ricchezze,  signor

      conte,  e permettetemi di offrirvele,  per quanto siano indegne di

      voi...  Consideratevi come in casa vostra, e per mettervi ancora a

      maggior comodo vostro,  abbiate  la  bontà  di  accompagnarmi  dal

      signor de Morcerf,  mio padre,  al quale scrissi da Roma il favore

      che mi avete reso,  ed ho annunziata  la  visita  che  mi  avevate

      promessa, e, posso assicurarvene, il conte e la contessa aspettano

      con  impazienza che sia permesso loro di ringraziarvene.  Siete un

      poco singolare in tutte le cose, lo so,  signor conte,  e forse le

      scene  di  famiglia  non  hanno  molta  attrazione  per Sindbad il

      marinaio: siete abituato a tutt'altre scene!  Però  accettate  ciò

      che  vi  propongo  come  iniziazione  alla vita parigina,  vita di

      cortesie, di visite e di presentazioni."

      Montecristo s'inchinò senza rispondere: accettò la proposta  senza

      entusiasmo e senza rincrescimento,  come una di quelle convenienze

      sociali, di cui ciascun uomo perbene si fa un dovere.

      Alberto chiamò il cameriere,  e gli ordinò d'andare a prevenire il

      signore  e  la signora de Morcerf del prossimo arrivo del conte di

      Montecristo.

      Alberto lo seguì col conte.

      Giungendo nell'anticamera del conte,  si vedeva,  al disopra della

      porta che metteva nel salotto, uno scudo, che dai ricchi fregi che

      lo  circondavano,   e  dall'armonia  cogli  arredi  della  stanza,

      rivelava in quanto conto fosse tenuto.

      Montecristo si fermò davanti a questo blasone  e  lo  esaminò  con

      attenzione. Sette merli d'oro a stormo, in campo azzurro.

      "Questa  senza  dubbio  è  l'arme della vostra famiglia?" domandò.

      "Escludendo le parti del blasone che mi permettono di  decifrarlo,

      sono molto ignorante in materia araldica.  Io sono conte per caso,

      fatto in Toscana per aver formata una commenda di Santo Stefano, e

      mi sarei contentato d'essere semplicemente un gran signore, se non

      mi si fosse più volte ripetuto che, per uno che viaggia molto,  un

      titolo  è  cosa  necessaria.  In  pratica  portare  un  arme  allo

      sportello della carrozza è cosa molto utile,  non fosse altro  che

      per  non essere visitati dai doganieri.  Scusatemi dunque se vi ho

      fatta questa domanda."

      "Essa non è affatto indiscreta"  disse  Morcerf  colla  semplicità

      della convinzione,  "e avete colto nel vero: queste sono le nostre

      armi, vale a dire, quelle del capo della famiglia, di mio padre...

      Ma,  come vedete,  sono  inquartate  con  altro  scudo  con  torri

      d'argento in campo rosso e che proviene dal capo della famiglia di

      mia  madre.  Dal  lato  di donna io sono spagnolo,  ma la famiglia

      Morcerf è francese,  e,  a quanto ho inteso dire ancora una  delle

      più antiche del mezzodì della Francia."

      "Sì" confermò Montecristo, "è quello che viene indicato dai merli.

      Quasi  tutti  i  pellegrini  armati  che  tentarono  o  fecero  la

      conquista della Terra Santa,  presero  per  loro  armi,  o  croci,

      simbolo  della  missione alla quale si erano votati,  o uccelli di

      passaggio,   simbolo  del  lungo   viaggio   che   imprendevano...

      Supponendo che fosse il tempo di San Luigi,  ciò vi fa risalire al

      dodicesimo secolo, il che è un altro pregio."

      "Ciò è possibile" disse Morcerf, "in un angolo dell'ufficio di mio

      padre vi è un albero genealogico che illustra  tutto  ciò,  e  sul

      quale  in  altri  tempi  ho  scritto  dei commentari che avrebbero

      soddisfatto d'Ozier e Jaucour. Ora non ci penso più, e tuttavia vi

      dirò,  signor conte,  e questo rientra nelle mie  attribuzioni  di

      cicerone,  che già cominciano di nuovo ad occuparsi di queste cose

      sotto il nostro governo popolare."

      "Ebbene,  allora il vostro  governo  dovrebbe  scegliere  nel  suo

      passato qualche cosa di meglio che quelle due tavole che ho vedute

      sui vostri monumenti, e che non hanno alcun senso araldico. Quanto

      a voi,  visconte" riprese Montecristo ritornando a Morcerf, "siete

      più fortunato del vostro  governo,  perché  le  vostre  armi  sono

      veramente belle e parlano all'immaginazione.  Sì,  voi siete ad un

      tempo di Provenza e di Spagna, e ciò mi spiega (se il ritratto che

      mi avete mostrato è  rassomigliante)  il  color  bruno  che  tanto

      ammirai sul viso della nobile catalana."

      Sarebbe  occorso  essere Edipo,  o la stessa sfinge per indovinare

      l'ironia che mise il conte in queste parole,  coperte in apparenza

      dalla  maggior  gentilezza;  per  cui  Morcerf lo ringraziò con un

      sorriso, e, passando prima per fargli strada, spinse la porta che,

      come si disse, metteva nel salotto da ricevimento.

      Nel luogo più esposto di questo salotto si  vedeva  ugualmente  un

      ritratto;  quello  di  un  uomo  dai trentacinque ai quaranta anni

      vestito coll'uniforme di generale,  portando  la  doppia  spallina

      particolare  ai  gradi  superiori,  la decorazione da commendatore

      della Legion d'Onore al collo, e sul petto, a dritta, la placca di

      Grande ufficiale dell'ordine del Salvatore,  a sinistra quella  di

      Gran   Croce  dell'ordine  di  Carlo  Terzo.   Quindi  la  persona

      rappresentata da questo ritratto aveva fatto le guerre di Grecia e

      di Spagna, o, ciò che è lo stesso in materia di decorazioni, aveva

      adempiuto qualche missione diplomatica nei due paesi.

      Montecristo era occupato a guardare questo ritratto con non minore

      attenzione di quel che aveva fatto  coll'altro,  quando  la  porta

      laterale  si aprì,  ed egli si trovò in faccia al conte di Morcerf

      in persona.

      Era un uomo fra i quaranta quarantacinque anni,  ma ne  dimostrava

      almeno   cinquanta,   i   cui   baffi   e   sopraccigli  nerissimi

      contrastavano stranamente coi capelli quasi bianchi tagliati corti

      a spazzola secondo l'uso militare.

      Era vestito da borghese,  e portava all'occhiello un nastro le cui

      strisce  a  diversi  colori  indicavano  i  vari ordini di cui era

      decorato.  Questo uomo entrò con passo nobile ma con una specie di

      fretta.

      Montecristo  l'osservò senza muover passo;  si sarebbe detto che i

      piedi erano inchiodati al pavimento  e  gli  occhi  sul  viso  del

      conte.

      "Padre mio" disse il giovane, "ho l'onore di presentarvi il signor

      conte di Montecristo,  quel generoso amico che ho avuto la fortuna

      d'incontrare nelle difficili situazioni che sapete."

      "Signore,  voi siete il benvenuto  fra  noi"  disse  il  conte  di

      Morcerf,  salutando Montecristo con un sorriso.  "Nel salvare alla

      mia famiglia l'unico suo erede,  avete reso alla  nostra  casa  un

      servigio che vi merita la nostra eterna riconoscenza."

      Dicendo  queste parole il conte di Morcerf indicava una seggiola a

      braccioli a Montecristo,  nel medesimo  tempo  ch'egli  stesso  si

      sedeva in faccia alla finestra.

      Quanto a Montecristo,  prendendo la seggiola indicata dal conte di

      Morcerf,  si situò in modo da rimanere nascosto  nell'ombra  delle

      grandi  tende di velluto,  per leggere di là sui tratti del conte,

      in ciascuna ruga del suo volto.

      "La contessa" disse Morcerf, "era alla toilette quando il visconte

      l'ha fatta avvertire della visita che  avrebbe  avuto  l'onore  di

      ricevere; sta per scendere, e fra dieci minuti sarà in salotto."

      "E'  molto  onore  per  me"  disse  Montecristo,  "essere messo in

      rapporto,  fin dal primo giorno in cui sono a Parigi,  con un uomo

      il  cui  merito  è  eguale  alla  reputazione,  e  per il quale la

      fortuna, giusta questa volta, non ha commesso errore... Ma non ha,

      la sorte,  nelle pianure di Mitidjia o nelle montagne dell'Atlante

      un bastone da Maresciallo da offrirvi?"

      "Oh!"  replicò  Morcerf  arrossendo  un  poco,  "io ho lasciato il

      servizio, signore. Nominato Pari sotto la restaurazione, ero nella

      prima campagna,  e servivo agli ordini del  maresciallo  Bourmont.

      Potevo  dunque  pretendere un comando superiore?  E chi sa ciò che

      sarebbe accaduto,  se la dinastia primogenita rimaneva sul  trono?

      Ma  la  rivoluzione  di  luglio,  a quanto sembra,  era abbastanza

      gloriosa per potersi permettere d'essere  ingrata,  e  lo  fu  per

      tutti  i  servigi che non portavano la data del periodo imperiale.

      Chiesi dunque la dimissione,  perché quando uno ha guadagnato come

      me le spalline sul campo di battaglia, non sa ugualmente manovrare

      sul terreno sdrucciolevole delle sale.  Ho lasciata la spada, e mi

      sono ingolfato nella politica; mi dedico all'industria e studio le

      arti utili. Nei vent'anni che sono rimasto in servizio ne avevo il

      desiderio, ma non ne avevo avuto il tempo."

      "Sono queste idee  che  dimostrano  la  superiorità  della  vostra

      nazione   sugli   altri   paesi,   signore"  rispose  Montecristo.

      "Gentiluomo,  uscito da una gran famiglia,  possedendo  una  bella

      fortuna  avete  sulle  prime voluto acquistarvi i primi gradi come

      oscuro soldato,  la  qual  cosa  è  molto  rara;  quindi  divenuto

      generale,  Pari  di  Francia,  commendatore  della Legion d'Onore,

      acconsentite ad  incominciare  un  secondo  noviziato,  senz'altra

      ricompensa che quella d'essere un giorno utile ai vostri simili...

      Ah! signore, ecco quello che può veramente dirsi bello; dirò anche

      più, sublime."

      Alberto  guardava ed ascoltava Montecristo con meraviglia: non era

      avvezzo a vederlo alzarsi a simili entusiasmi.

      "Ahimè" continuò  lo  straniero,  senza  dubbio  per  far  sparire

      l'impercettibile  nube  che  era  passata sulla fronte di Morcerf,

      "noi non facciamo così;  cresciamo secondo la nostra  razza  e  la

      nostra  specie,  e  conserviamo  la  stessa  corteccia,  la stessa

      dimensione,  e dirò ancora la stessa inutilità per tutta la nostra

      vita."

      "Ma,  signore,  per  un  uomo del vostro merito,  l'Italia non può

      essere sua patria, e la Francia vi apre le braccia;  corrispondete

      alla  sua  chiamata,  la Francia forse non sarà ingrata con tutti;

      essa è accostumata ad accogliere generosamente gli stranieri."

      "Eh,  padre mio,  si vede bene  che  non  conoscete  il  conte  di

      Montecristo.  Le  sue  soddisfazioni  sono  al  di fuori di questo

      mondo, egli non aspira agli onori,  e ne prende soltanto quanti ne

      possono stare sul suo passaporto."

      "Ecco l'espressione più giusta che abbia mai intesa sul conto mio"

      rispose lo straniero.

      "Il  signore  è  stato  padrone  del suo avvenire,  ecco perché ha

      scelto un sentiero di fiori" disse sospirando de Morcerf.

      "Precisamente,  signore"  replicò  Montecristo  con  uno  di  quei

      sorrisi  che  un  pittore  non  potrà  mai  riprodurre,  e  che un

      fisiologo sarebbe disperato ad analizzare.

      "Se non avessi avuto timore di stancare il signor conte" disse  il

      generale evidentemente lusingato dalle parole di Montecristo,  "lo

      avrei condotto alla Camera;  oggi vi è una seduta curiosa per  chi

      non conosce i nostri moderni senatori."

      "Vi sarei molto riconoscente se vorreste rinnovarmi questa offerta

      un'altra  volta;  ma  oggi  sono stato lusingato dalla speranza di

      esser presentato alla signora contessa, ed aspetterò."

      "Ah! ecco appunto mia madre" esclamò Alberto.

      Difatti Montecristo volgendosi  velocemente  vide  la  signora  de

      Morcerf  sul  limitare  della  porta  opposta a quella per cui era

      entrato il marito immobile e pallida;  appena Montecristo si volse

      dalla sua parte,  lasciò cadere il braccio che,  non si sa perché,

      s'era appoggiato  alla  maniglia  dorata;  stava  là,  da  qualche

      secondo,   ed  aveva  intese  le  ultime  parole  pronunciate  dal

      viaggiatore oltremontano.

      Questi si alzò e salutò profondamente la contessa,  che  s'inchinò

      anch'essa, muta e cerimoniosa.

      "Eh, mio Dio, signora che avete?" domandò il conte. "Sarebbe forse

      il calore di questo salotto che vi fa male?"

      "State  poco  bene,  madre  mia?"  gridò  il  visconte lanciandosi

      incontro a Mercedes.

      Lei li ringraziò entrambi con un sorriso.

      "No" disse,  "ma ho provato una certa emozione nel vedere  per  la

      prima  volta  colui  senza  il cui aiuto ora saremmo immersi nelle

      lacrime e nel lutto.  Signore" continuò la  contessa,  avanzandosi

      colla maestà di una regina, "vi debbo la vita di mio figlio, e per

      questo vi benedico. Ora vi sono grata del piacere che mi procurate

      offrendomi l'occasione di ringraziarvi con tutto il cuore."

      Il  conte s'inchinò,  ma più profondamente della prima volta,  era

      ancora più pallido di Mercedes.

      "Signora" disse,  "il signor conte e voi mi ringraziate troppo per

      un azione semplicissima.  Salvare un uomo, risparmiare un tormento

      al padre,  risparmiare la sensibilità di una  donna,  ciò  non  si

      chiama fare un'opera buona, ma fare un atto di umanità."

      A   queste  parole  pronunciate  con  dolcezza,   e  con  squisita

      gentilezza, la signora de Morcerf rispose con accento profondo:

      "E' una fortuna per mio figlio l'avervi per amico, e ringrazio Dio

      che ha in tal modo disposte le cose."

      E Mercedes alzò gli  occhi  al  cielo  con  una  gratitudine  così

      infinita, che al conte parve di vedere tremolare due lacrime.

      Il signor de Morcerf si avvicinò a lei:

      "Signora,  ho  già  fatto  le mie scuse al signor conte per essere

      obbligato a lasciarlo: vi prego di  rinnovarle.  La  seduta  si  è

      aperta alle due, ora sono le tre, ed io sono obbligato a parlare."

      "Andate, signore; cercherò di far dimenticare la vostra assenza al

      nostro   ospite"   disse  la  contessa  collo  stesso  accento  di

      sensibilità.  "Il signor conte" proseguì la contessa volgendosi  a

      Montecristo, "vorrà farci la grazia di passare il resto del giorno

      con noi?"

      "Grazie,  signora,  sono,  credetelo,  riconoscente  nel  modo più

      profondo alla vostra offerta;  ma questa mattina sono sceso  dalla

      carrozza da viaggio alla vostra porta.  Non so come sia installato

      a Parigi; e il dove mi è appena noto. E' una inquietudine leggera,

      lo so, non pertanto è da considerarsi."

      "Avremo questo piacere un'altra volta,  almeno: ce lo promettete?"

      domandò la contessa.

      Montecristo s'inchinò senza rispondere, ma il gesto poteva passare

      per un consenso.

      "Allora non vi trattengo,  signore" disse la contessa, "poiché non

      voglio che la mia riconoscenza divenga o una  importunità,  o  una

      indiscrezione."

      "Mio  caro  conte"  disse  Alberto,  "se  lo  volete,  cercherò di

      corrispondere alla vostra cortesia di  Roma  col  mettere  la  mia

      carrozza a vostra disposizione,  fino a che abbiate avuto il tempo

      di provvedervi del vostro equipaggio."

      "Mille  grazie  alla  vostra  cortese  offerta,   visconte"  disse

      Montecristo,  "ma  presumo  che  Bertuccio  avrà  convenientemente

      impiegate le quattr'ore che gli ho concesse,  e che  troverò  alla

      porta una carrozza qualunque già attaccata."

      Alberto  era  abituato a queste maniere del conte: sapeva che come

      Nerone era alla ricerca dell'impossibile,  e non  si  meravigliava

      più  di  nulla;  soltanto  volle giudicare di persona in qual modo

      erano stati eseguiti i suoi ordini,  e  lo  accompagnò  sino  alla

      porta di strada.

      Montecristo  non s'era sbagliato;  appena comparve nell'anticamera

      del conte de Morcerf,  uno staffiere,  lo stesso che  a  Roma  era

      venuto  a  portare  il  biglietto  del  conte  ai due giovani,  ed

      annunziar  loro  la  sua  visita,   si  era  slanciato  fuori  del

      peristilio,   di   modo  che  giungendo  al  portone,   l'illustre

      viaggiatore trovò la carrozza che lo aspettava.

      Era un coupé della fabbrica di Keller, e due cavalli,  per i quali

      Drake aveva,  come sapevano tutti i lyons di Parigi,  rifiutato il

      giorno innanzi diciotto mila franchi.

      "Signore"  disse  il  conte  ad  Alberto,   "non  vi  propongo  di

      accompagnarmi  alla  mia  casa  non  potrei mostrarvi che una casa

      improvvisata...  Accordatemi  un  giorno  ed  allora  permettetemi

      d'invitarvi:   sarò   più   sicuro   di  non  mancare  alle  leggi

      dell'ospitalità."

      "Se mi chiedete un giorno, signor conte, sono tranquillo: non sarà

      più una casa che mi mostrerete,  ma un palazzo.  Voi dovete  avere

      qualche genio a vostra disposizione."

      "In fede mia,  continuate a crederlo" disse Montecristo,  mettendo

      il piede sul montatoio in velluto del  suo  splendido  equipaggio,

      "ciò potrà essermi utile, signore."

      E si lanciò nella carrozza,  che si chiuse dietro a lui e partì al

      galoppo  ma  non  tanto  rapidamente  che  il  conte  non  potesse

      accorgersi  del  movimento  impercettibile  che mosse la tenda del

      salotto ove aveva lasciata la signora de Morcerf.

      Quando Alberto ritornò da  sua  madre,  ritrovò  la  contessa  nel

      salotto  gettata  sopra un seggiolone di velluto;  tutta la stanza

      essendo nell'ombra,  non lasciava scorgere che la foglietta  d'oro

      sfavillante,  attaccata  qua  e là o sul corpo di qualche vaso,  o

      agli angoli di qualche quadro.

      Alberto non poté vedere il volto della contessa nascosto sotto  la

      nube  del  velo  che  le  circondava  la  testa come un'aureola di

      vapore, ma gli sembrò che la voce fosse alterata;  distinse ancora

      fra  gli  odori  di  rose e vainiglie della giardiniera la traccia

      aspra e mordente del sale d'aceto sopra una delle tazze  cesellate

      del caminetto, infatti la boccettina della contessa, tolta dal suo

      astuccio di velluto, attirò l'inquieta attenzione del giovane.

      "Soffrite,  madre mia" gridò entrando,  "o vi sareste sentita male

      mentre io non c'ero?"

      "Io? No, Alberto,  ma queste rose,  queste tuberose,  questi fiori

      d'arancio  nauseano  nei  primi  calori,  quando  non  si è ancora

      abituati a violenti profumi..."

      "Allora,  madre mia" disse Alberto portando la mano al campanello,

      "bisogna  farli  portare  nella vostra anticamera: siete veramente

      indisposta;  anche  poco  fa,   quando  entraste,   eravate  molto

      pallida."

      "Ero pallida, dite voi, Alberto?"

      "Di un pallore che vi sta a meraviglia, madre mia, ma che però non

      ha spaventato meno mio padre e me."

      "Vostro padre ve ne ha parlato?" domandò vivamente Mercedes.

      "No, signora, ma fu a voi stessa che diresse questa osservazione."

      "Non me ne ricordo..." disse la contessa.

      Entrò  un  cameriere,  chiamato dal suono del campanello tirato da

      Alberto.

      "Portate questi fiori in anticamera, o nel salotto della toilette"

      disse il visconte, "fanno male alla signora contessa."

      Il cameriere obbedì.

      Vi fu un silenzio abbastanza lungo, che durò tutto il tempo che il

      cameriere provvedeva a portar via i fiori.

      "Qual nome è mai  questo  di  Montecristo?"  chiese  la  contessa,

      quando il domestico uscì portando via l'ultimo vaso di fiori.  "E'

      il nome di una terra o un semplice titolo?"

      "Questo è, credo, un titolo, madre mia, e niente più.  Il conte ha

      comprato  un'isola nell'arcipelago toscano,  ed ha,  per quanto ha

      detto egli stesso questa mattina, fondato una commenda. Voi sapete

      che ciò si usa per Santo  Stefano  di  Firenze  per  San  Gregorio

      Costantiniano  di Parma ed anche per l'ordine di Malta.  Del resto

      non ha alcuna pretesa di nobiltà,  e si  chiama  conte  per  caso,

      quantunque  l'opinione  generale di Roma fosse che il conte sia un

      gran signore."

      "I suoi modi sono eccellenti,  per quanto ho potuto giudicare  nei

      pochi momenti che si è trattenuto."

      "Oh!  perfetti,  madre  mia,  anzi tanto perfetti,  che sorpassano

      molto tutto ciò che ho conosciuto di più aristocratico  nelle  tre

      nobiltà  più  orgogliose  d'Europa,  cioè  nella  nobiltà inglese,

      spagnola e germanica."

      La contessa rifletté un momento,  poi dopo  una  breve  esitazione

      riprese:

      "Avete  visto,  mio caro Alberto...  questa è una domanda da madre

      che vi faccio, lo capirete... avete visto il signor di Montecristo

      nel profondo? Voi avete della perspicacia, voi avete uso di mondo,

      e un tatto maggiore di quello che d'ordinario si  ha  alla  vostra

      età... Credete che il conte sia quello che appare essere?"

      "Come, appare?"

      "Voi stesso lo avete detto, non ha pari... un gran signore."

      "Vi ho detto, madre mia, ch'egli era ritenuto per tale."

      "Ma che ne pensate voi?"

      "Io  non  ho,  ve  lo confesso,  un'opinione precisa su di lui: lo

      credo maltese."

      "Io non vi chiedo della sua origine, ma della sua persona."

      "Ah la sua persona è tutt'altro!  Ho viste tante  cose  strane  di

      lui,  che  se voleste vi dicessi ciò che ne penso,  vi risponderei

      che lo  considero  come  uno  degli  uomini  alla  Byron,  che  la

      disgrazia  ha  marcati  col  suggello  fatale;  qualche  Manfredo,

      qualche Lara,  qualche Werner,  uno di quegli  avanzi  di  vecchia

      famiglia che, diseredati dalla fortuna paterna, ne hanno ritrovato

      una  colla  forza del loro genio avventuroso che li ha posto al di

      sopra delle leggi della società... Dico che Montecristo è un'isola

      in mezzo al Mediterraneo, senza abitanti, senza guarnigione, asilo

      di contrabbandieri di tutte le  nazioni,  di  pirati  di  tutti  i

      paesi.  Chi  sa  che  questi degni trafficanti non paghino al loro

      signore il diritto di asilo."

      "E' possibile..." disse la contessa distratta.

      "Ma non importa" riprese il giovane,  "contrabbandiere  o  no,  ne

      converrete  madre mia (perché l'avete veduto),  il signor conte di

      Montecristo è un uomo notevole,  ed avrà  i  più  grandi  successi

      nelle  sale  di Parigi.  E questa mattina da me ha incominciato il

      suo ingresso nel mondo destando in tutti ammirazione,  perfino  in

      Chateau-Renaud."

      "E  che  età  potrà  avere  il  conte?"  chiese  Mercedes,   dando

      visibilmente grande importanza a questa domanda.

      "Avrà trentacinque o trentasei anni, madre mia."

      "Così  giovane?   E'  possibile!"  disse   Mercedes,   rispondendo

      contemporaneamente  a  ciò  che le diceva Alberto,  e a ciò che le

      diceva il proprio pensiero.

      "Eppure questa è la verità.  Tre o quattro volte mi  ha  detto,  e

      certamente senza premeditazione, alla tal'epoca avevo cinque anni,

      alla tal'altra dodici.  Io che ero all'erta su questi particolari,

      ho ravvicinato le date, e non l'ho mai trovato in fallo.  L'età di

      quest'uomo singolare, che non ha età, è dunque, ne sono sicuro, di

      trentacinque anni. In più, ricordatevi, madre mia, quanto è vivace

      il  suo  sguardo,  come  sono  neri  i capelli,  e come la fronte,

      sebbene pallida,  è esente da rughe;  questa è una natura non solo

      vigorosa, ma giovane."

      La  contessa  abbassò il capo come sotto un'onda troppo pesante di

      amari pensieri.

      "E quest'uomo ha stretta amicizia con voi?" domandò con un fremito

      nervoso.

      "Lo credo, madre mia."

      "E voi... lo amate ugualmente?"

      "Egli mi piace, checché ne dica Franz d'Epinay,  che lo voleva far

      comparire ai miei occhi come un uomo uscito dall'altro mondo."

      La contessa fece un movimento di terrore.

      "Alberto"  disse  con  voce  alterata,  "io  vi ho sempre messo in

      guardia contro le nuove conoscenze. Ora siete un uomo,  e potreste

      dar consigli a me, tuttavia vi ripeto: "Siate prudente, Alberto."

      "Mia   cara   madre,   perché  il  consiglio  fosse  profittevole,

      bisognerebbe che sapessi di che cosa debbo non fidarmi.  Il  conte

      non gioca mai, il conte non beve che dell'acqua dorata con qualche

      goccia di vino di Spagna,  il conte si è rivelato tanto ricco, che

      non potrebbe chiedermi in prestito  del  danaro  senza  esporsi  a

      farsi  ridere  sul naso...  Che volete dunque che io tema da parte

      del conte?"

      "Voi avete ragione" disse la contessa,  "ed  i  miei  timori  sono

      folli  particolarmente  per  un uomo che vi ha salvata la vita.  A

      proposito,  Alberto,   vostro  padre  lo  ha  ricevuto  bene?   E'

      necessario che noi siamo più che ospitali col conte.  Il signor de

      Morcerf qualche volta è preoccupato,  i  suoi  affari  lo  rendono

      distratto, e potrebbe darsi, senza volerlo..."

      "Mio padre si è condotto perfettamente" interruppe Alberto,  "dirò

      di più, è sembrato grandemente lusingato dei due o tre complimenti

      accorti che il conte gli ha fatto  tanto  fortuitamente  quanto  a

      proposito, come se lo avesse conosciuto da trent'anni. Ciascuna di

      queste  piccole  frecce  di  lode ha dovuto solleticare mio padre"

      soggiunse Alberto ridendo, "poiché si sono lasciati come i due più

      grandi amici del mondo,  ed il signor de Morcerf lo voleva perfino

      condurre alla Camera per fargli sentire il suo discorso."

      La  contessa  non  rispose:  era  assorta  in una riflessione così

      profonda, che i suoi occhi si erano chiusi a poco a poco.

      Il giovane in piedi dinanzi a  lei,  la  guardava  con  quell'amor

      filiale che è ancor più tenero e più affettuoso nei figli,  le cui

      madri sono ancora giovani e belle; poi,  dopo aver visto gli occhi

      di  lei chiudersi,  l'ascoltò respirare un momento nella sua dolce

      immobilità,  e credendola assopita si allontanò in punta di piedi,

      chiudendo  con  cautela  la  porta  della stanza dove lasciava sua

      madre.

      "Che diavolo d'uomo!" mormorò scuotendo la testa,  "gli avevo  ben

      predetto  laggiù  che  avrebbe  fatto  gran  sensazione nel nostro

      mondo;  io ne calcolo l'effetto su di un  termometro  infallibile.

      Mia  madre  lo  ha  rimarcato,  dunque  bisogna  dire  ch'egli sia

      notevole."

      Discese nelle scuderie,  non senza un segreto dispetto,  perché il

      conte  di  Montecristo  si  era  provveduto  d'una  pariglia,  che

      relegava i cavalli di Alberto in secondo piano  agli  occhi  degli

      intenditori.

      "Davvero" disse, "gli uomini non sono tutti eguali."

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                 Capitolo 41.

                                  BERTUCCIO.

 

 

      In  quel  mentre  il  conte era giunto alla sua abitazione.  Aveva

      impiegati sei minuti a percorrere la distanza,  sufficienti perché

      fosse  visto  da una ventina di giovani che,  conoscendo il prezzo

      dell'equipaggio, avevano messe le loro cavalcature al galoppo, per

      vedere lo splendido signore che aveva cavalli da diecimila franchi

      l'uno.

      La casa scelta da Alì,  e che doveva servire da residenza in città

      a  Montecristo,  era situata a destra salendo agli Champs-Elysées,

      con un bel cortile e un  giardino.  Un  gruppo  di  ramosi  alberi

      s'innalzava in mezzo al cortile, copriva una parte della facciata;

      ai  lati  di  questi  alberi  passavano due viali che dal cancello

      portavano le carrozze ad una  doppia  scalinata,  ornata  su  ogni

      gradino da un vaso di porcellana pieno di fiori.

      Questa  casa,  isolata  nel  centro  di  un  vasto  spazio,  oltre

      l'ingresso principale,  aveva  pure  un'altra  entrata  sulla  rue

      Ponthieu.

      Prima ancora che il cocchiere avesse data la voce al portinaio, il

      robusto  cancello  girò sui gangheri: era stato veduto giungere il

      conte, ed a Parigi, come a Roma,  e come ovunque era servito colla

      rapidità del fulmine.

      Il  cocchiere  dunque  entrò,  descrisse  il  mezzo  cerchio senza

      rallentare la corsa,  ed il cancello era già rinchiuso,  quando le

      ruote rumoreggiavano ancora sulla sabbia del viale.

      La  carrozza  si  fermò  alla parte sinistra della scalinata,  due

      uomini comparvero allo sportello; uno era Alì,  che sorrise al suo

      padrone  con  una  incredibile  gioia,  e  che si trovò pago di un

      semplice sguardo di  Montecristo,  l'altro  salutò  umilmente,  ed

      offrì  il  braccio  al  conte  per  aiutarlo  a  discendere  dalla

      carrozza.

      "Grazie,  Bertuccio" disse il conte,  saltando leggermente  i  tre

      scalini. "E il notaio?"

      "E' nel salotto, Eccellenza" rispose Bertuccio.

      "Ed i biglietti da visita che ho ordinato di fare stampare, appena

      avuto il numero della casa?"

      "Signor conte, è fatto tutto; sono stato dal migliore incisore del

      Palazzo Reale,  che ha eseguito il rame in mia presenza,  e tirato

      il  primo  biglietto,  secondo  i  vostri  ordini.  Subito  questo

      biglietto  fu  portato  al  signor Danglars,  rue Chaussée d'Antin

      numero 7;  gli altri sono sul caminetto della camera da  letto  di

      Vostra Eccellenza."

      "Va bene: che ore sono?"

      "Le quattro."

      Montecristo  consegnò  il cappello,  i guanti,  ed il bastone allo

      stesso staffiere francese che era corso fuori dall'anticamera  del

      conte di Morcerf per fare inoltrare la carrozza,  quindi passò nel

      piccolo  salotto,  condotto  da  Bertuccio,  che  gl'insegnava  la

      strada.

      "Ecco  dei mobili mediocri in quest'anticamera,  spero bene che ne

      verrò presto sbarazzato" disse Montecristo.

      Bertuccio s'inchinò.

      Come aveva detto l'intendente,  il notaio  aspettava  nel  piccolo

      salotto.

      Era  un  onesta  figura  parigina,  elevata alla dignità di notaio

      distrettuale.

      "Il signore è il notaio incaricato di vendere la casa di  campagna

      che voglio comprare?" domandò Montecristo.

      "Sì, signor conte" rispose il notaio.

      "L'atto di vendita è steso?"

      "Sì, signor conte."

      "Lo avete con voi?"

      "Eccolo qui."

      "Perfettamente."

      "E dove è situata questa casa che compro?" domandò negligentemente

      Montecristo per metà al notaio e per metà a Bertuccio.

      Il notaio guardò il conte con stupore.

      "Come?"  disse,  "il  signor  conte  non  sa  dove sia la casa che

      compra?"

      "No, in fede mia" disse il conte.

      "Il signor conte non la conosce?"

      "E come diavolo  la  posso  conoscere?  Giungo  da  Cadice  questa

      mattina non sono mai stato a Parigi, ed è la prima volta che metto

      piede in Francia."

      "Allora  è  tutt'altro" rispose il notaio.  "La casa che compra il

      signor conte è ad Auteuil."

      "E dove è Auteuil?" chiese Montecristo.

      "A pochi passi da qui,  signor conte" disse il notaio,  "poco dopo

      Passy,  in  una  bellissima  posizione,  nel  centro  del  Bois de

      Boulogne."

      "Tanto vicino!" disse Montecristo. "Ma questa non è campagna. Come

      diavolo siete andato a scegliermi una casa alle porte  di  Parigi,

      Bertuccio?"

      "Io"   gridò  l'intendente  con  una  strana  sollecitudine,   "no

      certamente non sono stato io l'incaricato  del  signor  conte  per

      pigliare una casa;  prego il signor conte di ricordarsene bene,  e

      richiamare i suoi ricordi."

      "Ah,  è  giusto"  disse  Montecristo,   "ora  ricordo,   ho  letto

      quest'annuncio  in  un giornale,  e mi sono lasciato sedurre dalla

      falsa menzione "casa di campagna"."

      "Siete ancora in tempo" disse con vivacità Bertuccio, "e se Vostra

      Eccellenza vuole incaricarmi di cercare un  altro  luogo,  troverò

      ciò che vi ha di meglio, sia ad Enghien, sia a Fontenay-aux-Roses,

      sia a Bellevue."

      "No,  in  fede  mia" disse con noncuranza Montecristo,  "poiché ho

      questa, la conserverò."

      "Il signore ha ragione" disse  subito  il  notaio  che  temeva  di

      perdere  i suoi guadagni,  "questa è una graziosa proprietà: acque

      vive, boschi folti,  abitazione gradevole,  quantunque abbandonata

      da lungo tempo,  senza calcolare la mobilia, che, sebbene vecchia,

      ha del valore, particolarmente oggi che si cercano le anticaglie."

      "Dunque è conveniente?" soggiunse Montecristo.

      "Ah, signore, è ancora meglio, è magnifica!"

      "Presto!  non ci lasciamo sfuggire l'occasione" disse Montecristo.

      "Il contratto, signor notaio?"

      E  sottoscrisse,  dopo aver data un'occhiata nella parte dell'atto

      ove stavano segnati i nomi dei proprietari,  e la situazione della

      villa.

      "Bertuccio"   diss'egli,   "date  cinquantacinquemila  franchi  al

      signore."

      L'intendente uscì con passo incerto, e ritornò con un pacchetto di

      biglietti di banca che il notaio contò al modo  degli  uomini  che

      hanno ogni giorno a che fare col danaro.

      "Ed ora" domandò il conte, "sono adempiute tutte le formalità?"

      "Tutte, signor conte."

      "Avete le chiavi?"

      "Sono  nelle  mani  del portinaio che custodisce la casa;  ma ecco

      l'ordine che gli ho dato di installare il signore nella sua  nuova

      proprietà."

      "Va benissimo."

      E  Montecristo  fece  al  notaio un segno colla testa,  che voleva

      dire: "Signore, non ho più bisogno di voi, andatevene".

      "Ma" disse l'onesto notaio,  "mi sembra che il signor conte si sia

      sbagliato; non sono che cinquantamila franchi tutto compreso."

      "E i vostri onorari?"

      "Vengono pagati colla stessa somma, signor conte."

      "Ma non siete venuto qui da Auteuil?"

      "Sì, senza dubbio."

      "Ebbene,  bisogna compensare il vostro incomodo" disse il conte. E

      lo congedò con un gesto.

      Il notaio uscì andando all'indietro, e salutando fino a terra; era

      la prima volta,  dal giorno in cui aveva  presa  la  licenza,  che

      trovava un simile cliente.

      "Accompagnate il signore" disse il conte a Bertuccio.

      E l'intendente uscì dietro il notaio.

      Appena  il  conte  fu  solo,  cavò  di  tasca  un  portafogli  con

      serratura,  lo aprì con una chiavetta che portava al collo,  e che

      non lasciava mai.

      Dopo  aver cercato un momento,  si fermò sopra un foglietto su cui

      erano  segnate  alcune  annotazioni,  le  confrontò  coll'atto  di

      vendita deposto sulla tavola, e raccogliendo la memoria:

      "Auteuil, rue Fontaine 28; è questa" disse, "ora mi debbo attenere

      ad  una  confessione  ottenuta per mezzo del rimorso religioso,  o

      strappata dal terrore fisico?  Del resto,  fra un'ora saprò tutto.

      Bertuccio!"  gridò  battendo  un  colpo  con una specie di piccolo

      martello a manico elastico sopra un campanello,  che rese un suono

      acuto e prolungato simile a quello del gong.

      L'intendente comparve sulla soglia.

      "Bertuccio,  non  mi  avete  detto  una volta di aver viaggiato in

      Francia?"

      "In alcune parti della Francia sì, Eccellenza."

      "Conoscerete senza dubbio i dintorni di Parigi?"

      "No,  Eccellenza,  no" rispose  l'intendente  con  una  specie  di

      tremito nervoso,  che Montecristo,  grande conoscitore in fatto di

      emozioni, attribuì con ragione ad una viva inquietudine.

      "Mi rincresce che non  abbiate  visitati  i  dintorni  di  Parigi,

      perché voglio questa stessa sera vedere la mia nuova proprietà,  e

      venendo con me, mi avreste dato senza dubbio utili informazioni."

      "Ad Auteuil!" gridò Bertuccio,  il cui  viso  color  rame  divenne

      quasi livido, "io andare ad Auteuil!"

      "Ebbene,  che  c'è  di  strano  che veniate ad Auteuil?  Quando io

      dimorerò ad Auteuil,  bisognerà bene che ci veniate,  giacché fate

      parte della famiglia."

      Bertuccio  abbassò  la  testa  davanti  allo sguardo imperioso del

      padrone restò immobile, e senza rispondere.

      "Ebbene,  che vi accade?  Mi obbligherete  dunque  a  suonare  una

      seconda volta per la carrozza?" disse Montecristo col tono con cui

      Luigi Quattordicesimo pronunciò il suo famoso: "Poco è mancato che

      io non aspettassi!".

      Bertuccio  fece  un  balzo  dal piccolo salotto all'anticamera,  e

      gridò con voce rauca:

      "I cavalli di Sua Eccellenza."

      Montecristo  scrisse  due  o  tre  lettere,   e  mentre  sigillava

      l'ultima, l'intendente ricomparve.

      "La carrozza di Sua Eccellenza è alla porta" disse.

      "Ebbene, prendete i vostri guanti ed il cappello."

      "E' dunque vero che vengo con Vostra Eccellenza" gridò Bertuccio.

      "Senza dubbio, bisogna bene che diate i vostri ordini mentre conto

      d'abitare quella casa."

      Sarebbe  stata senza precedenti una replica a ciò che comandava il

      conte; per cui l'intendente, senza fare alcuna obiezione, seguì il

      padrone  che  montò  in  carrozza,   e  gli  fece  segno  di  fare

      altrettanto.

      L'intendente si assise rispettosamente sul sedile davanti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                 Capitolo 42.

                             LA CASA DI AUTEUIL.

 

 

      Montecristo  aveva  osservato,  nel  discendere la scalinata,  che

      Bertuccio si era segnato al modo dei corsi,  vale a dire  fendendo

      l'aria in croce col pollice,  e che prendendo posto nella carrozza

      aveva mormorata una breve preghiera.

      Ogni altro uomo avrebbe avuto pietà della ripugnanza che il  degno

      intendente aveva manifestata per questa passeggiata fuori le mura,

      ideata dal conte. Ma a ciò che sembrava, questi era troppo curioso

      per dispensare Bertuccio da quel piccolo viaggio.

      In venti minuti furono ad Auteuil.

      L'emozione dell'intendente era sempre crescente.

      Nell'entrare  nel borgo,  Bertuccio raggruppato in un angolo della

      carrozza,  cominciò a guardare con un'emozione febbrile  tutte  le

      case davanti alle quali passavano.

      "Farete fermare a rue Fontaine, 28" disse il conte, fissando senza

      pietà lo sguardo sull'intendente al quale dava quest'ordine.

      Il  sudore  grondò dal viso di Bertuccio,  che tuttavia obbedì,  e

      sporgendo fuori della carrozza, gridò al cocchiere:

      "Rue Fontaine, 28."

      Questo numero 28 era situato all'estremità opposta del sobborgo.

      Durante il viaggio era sopraggiunta la notte, o piuttosto una nube

      nera  carica  di  elettricità  dava  a  quelle  tenebre  premature

      l'apparenza e la solennità di un episodio drammatico.  La carrozza

      si fermò, lo staffiere si precipitò allo sportello che aprì.

      "Ebbene" disse il conte,  "non scendete  Bertuccio?  Rimarrete  in

      carrozza? Ma a che diavolo pensate questa sera?"

      Bertuccio  si  precipitò  dalla  portiera  e presentò la spalla al

      conte, che questa volta vi si appoggiò,  e discese ad uno ad uno i

      tre gradini del montatoio.

      "Picchiate" disse il conte, "ed annunciatemi."

      Bertuccio bussò, la porta si aprì e comparve il portinaio.

      "Chi è?" domandò.

      "E'  il  nuovo padrone,  brav'uomo" disse lo staffiere e mostrò al

      portinaio il biglietto di riconoscimento dato dal notaio.

      "La casa è dunque venduta?" domandò il  portinaio.  "Ed  è  questo

      signore che viene ad abitarla?"

      "Sì,  amico  mio" disse il conte,  "farò in modo che non abbiate a

      rimpiangere l'antico padrone."

      "Ah,  signore,  non ne ho  nostalgia,  perché  lo  vedevamo  tanto

      raramente...  Sono più di cinque anni che non è venuto, ed in fede

      mia,  ha fatto molto bene a vendere una casa che non gli  fruttava

      niente."

      "Come si chiamava il vostro antico padrone?"

      "Il marchese di Saint-Méran. Ah, non ha certamente venduto la casa

      per quel che gli costava, ne sono ben sicuro."

      "Il marchese di Saint-Méran!" riprese Montecristo.  "Mi sembra che

      questo nome non mi sia ignoto."

      Indi ripeté: "Il marchese di Saint-Méran".  E parve cercare  nella

      sua memoria.

      "Un  vecchio  gentiluomo"  continuò  il portinaio,  "era servitore

      fedele dei Borboni,  aveva una figlia unica che maritò  al  signor

      Villefort, procuratore del Re a Nimes, e poi a Versailles."

      Montecristo vibrò uno sguardo su Bertuccio,  che aveva il viso più

      livido del muro contro il quale si appoggiava per non cadere.

      "E questa figlia non morì?" domandò  Montecristo.  "Mi  sembra  di

      averlo sentito dire."

      "Sì,  signore,  è  già  ventun  anni;  e da allora non abbiamo più

      veduto che tre volte il povero marchese."

      "Grazie, grazie" disse Montecristo,  giudicando dalla prostrazione

      dell'intendente di non potere più lungamente toccare quella corda,

      senza  correre  rischio  di romperla,  "grazie...  Datemi un lume,

      brav'uomo."

      "Vi accompagnerò io, signore."

      "No, è inutile. Bertuccio mi farà lume."

      E Montecristo accompagnò queste parole  col  dono  di  due  monete

      d'oro, che causarono una esplosione di benedizioni e sospiri.

      "Ah,  signore"  disse il portinaio,  dopo aver cercato inutilmente

      sulla pietra del caminetto e sui mobili vicini,  "la  disgrazia  è

      che qui non ho candelieri."

      "Prendete un fanale della carrozza, Bertuccio, e fatemi vedere gli

      appartamenti."

      L'intendente obbedì,  senza osservazioni,  ma era facile scorgere,

      dal tremito della mano che portava il fanale,  ciò che gli costava

      obbedire.

      Fu percorso un piano terreno molto vasto;  un primo piano composto

      di un salone,  di una stanza da bagno,  e due camere da  letto;  e

      giunsero ad una scala a chiocciola che metteva in giardino.

      "Osservate!  Ecco una scala segreta" disse il conte. "Questa ci fa

      molto comodo.  Fatemi lume,  Bertuccio,  andate avanti,  e vediamo

      dove ci condurrà."

      "Signore" disse Bertuccio, "porta al giardino."

      "E come lo sapete?"

      "Cioè, volevo dire che deve portarvi..."

      "Ebbene, assicuriamocene."

      Bertuccio mandò un sospiro, e andò avanti.

      La  scala  metteva effettivamente in giardino.  Alla porta esterna

      l'intendente si fermò.

      "Andiamo dunque, Bertuccio..." disse il conte.

      Ma Bertuccio era  assordito,  istupidito,  annientato.  Gli  occhi

      stravolti  cercavano  intorno  a  lui  le  tracce  di  un  passato

      terribile,  e colle mani irrigidite cercava di  allontanare  degli

      spaventosi ricordi.

      "Ebbene?" insistette il conte.

      "No,  no..." gridò Bertuccio, deponendo il fanale in un angolo del

      muro interno, "no, signore, non andrò più avanti, è impossibile!"

      "Sarebbe a dire?" articolò la voce imperiosa di Montecristo.

      "Vedete  bene,   signore,   che  questo  non  è  naturale"   gridò

      l'intendente,  "che  avendo una casa da comprare a Parigi,  voi la

      compriate precisamente ad Auteuil,  e che comprandola ad  Auteuil,

      questa  casa  sia  precisamente il numero 28 di rue Fontaine.  Ah,

      perché mai non vi ho detto tutto laggiù,  signore?  Voi certamente

      non  mi  avreste ordinato di seguirvi.  Io speravo che la casa del

      signor conte fosse tutt'altra che questa.  Possibile  non  ci  sia

      altra casa in Auteuil che quella dell'assassinio!"

      "Oh, oh!" disse Montecristo fermandosi. "Che orribile parola avete

      pronunciata?    Diavolo   d'uomo!    Corso   arrabbiato!    Sempre

      superstizioni?  Vediamo,  prendete questo fanale  e  visitiamo  il

      giardino; con me, spero che non avrete paura."

      Bertuccio raccolse il fanale, ed obbedì.

      La porta aprendosi, lasciò vedere un cielo cupo, nel quale la luna

      si  sforzava  invano  di  lottare  contro  un  mare di nubi che la

      coprivano coi loro vapori oscuri; illuminava per un momento,  e in

      seguito si perdeva più cupa ancora, nel profondo dell'infinito.

      L'intendente voleva piegare sulla sinistra.

      "No,  signore...  Perché andate sotto i viali?" disse Montecristo.

      "Ecco qui un bel praticello, andiamo diritto."

      Bertuccio si asciugò il sudore che  gli  irrigava  la  fronte,  ma

      obbedì;   ciò  nonostante  continuava  a  tenere  sulla  sinistra.

      Montecristo al contrario piegava a dritta; giunto presso un gruppo

      di alberi si fermò.

      L'intendente non poté contenersi.

      "Allontanatevi,   signore,   allontanatevi!"  gridò.   "Voi  siete

      precisamente sul luogo!"

      "E quale luogo?"

      "Sul luogo dove cadde."

      "Mio caro Bertuccio,  ritornate in voi stesso,  ve ne esorto,  non

      siamo qui né a Sartena, né a Corte.  Questa non è una macchia,  ma