"E il vostro intendente è pure uno della Nubia, un muto?" domandò
Debray.
"No, signore, è semplicemente un vostro compatriota, se un corso è
compatriota di qualcuno; ma voi lo conoscete, signor di Morcerf."
"Sarebbe per caso quel bravo Bertuccio, che è così esperto a
prendere in affitto le finestre?"
"Precisamente, e lo avete visto da me quel giorno ch'ebbi l'onore
di avervi a colazione. E' un bravissimo uomo, un po' soldato, un
po' contrabbandiere, un po' infine di tutto ciò che si può essere.
Non giurerei che non abbia avuto qualche intrigo colla polizia,
per una miseria, qualche cosa di simile ad un colpo di coltello."
"Ed avete scelto quest'onesto cittadino del mondo, per vostro
intendente, signor conte?" disse Debray. "E quanto vi ruba ogni
anno?"
"Ebbene, parola d'onore" disse il conte, "niente più di un altro,
ne sono sicuro; ma mi conviene, per lui nulla è impossibile, ed io
lo tengo."
"Allora" disse Chateau-Renaud, "eccovi con una casa montata; avete
un'abitazione agli Champs-Elisées, domestico, intendente: non vi
manca più che una moglie."
Alberto sorrise; pensava alla bella greca veduta nel palco del
conte al teatro Valle, e al teatro Argentina.
Da lungo tempo erano passati alla frutta e ai sigari.
"Mio caro" disse Debray alzandosi, "sono le due e mezzo, il vostro
convito è delizioso, ma non vi è buona compagnia che non si sia
obbligati a lasciare, e qualche volta anche per una cattiva:
bisogna che torni al Ministero. Parlerò del conte al ministro, e
bisognerà bene che scopriamo chi sia."
"Astenetevene" disse Morcerf, "i più maligni vi hanno rinunciato."
"Bah, noi abbiamo tre milioni per la nostra polizia; è vero che
sono quasi sempre spesi in anticipo; ma non importa: resteranno
sempre un cinquantamila franchi da impiegarsi in questo".
"E quando saprete chi è, me lo direte?"
"Ve lo prometto. Arrivederci, Alberto. Signori, servo umilissimo."
Ed uscendo, Debray gridò ad alta voce:
"Fate venire la carrozza!"
"Beh" disse Beauchamp ad Alberto, "io non andrò alla Camera, ma
avrò da offrire ai miei lettori molto di meglio che un discorso
del signor Danglars."
"Di grazia, Beauchamp" disse Morcerf, "neppure una parola, ve ne
supplico; non mi togliete il merito di presentarlo, e di renderlo
noto. Non è vero ch'egli è interessante?"
"Anche molto di più" rispose Chateau-Renaud: "è veramente uno
degli uomini più straordinari che abbia mai veduto in vita mia.
Venite, Morrel."
"Solo il tempo di dare il mio biglietto al signor conte, che vorrà
promettermi di venire a farci una visita, rue Meslay, numero 14."
"State sicuro che non mancherò, signore..." disse inchinandosi il
conte.
E Massimiliano Morrel uscì col barone di Chateau-Renaud, lasciando
Montecristo solo con Morcerf.
Capitolo 40.
LA PRESENTAZIONE.
Quando Alberto si trovò solo con Montecristo, gli disse:
"Signor conte, permettetemi di esordire nel mio compito di
cicerone col farvi la descrizione dell'appartamento di uno
scapolo. Abituato ai palazzi d'Italia, non sarà piccola sorpresa
per voi calcolare in quanti piedi quadrati può vivere un giovane
che passa per non essere male alloggiato. Passando da una camera
all'altra apriremo le finestre, perché possiate respirare."
Montecristo conosceva già il salotto, e la sala da pranzo del
piano terreno. Alberto lo condusse prima nel suo studio: ciascuno
si ricorderà che questa era la stanza prediletta d'Alberto.
Montecristo era un valente conoscitore di tutte le cose che
Alberto aveva ammassate in questa stanza: antichi scrigni,
porcellane del Giappone, stoffe d'Oriente, specchi di Venezia,
armi di tutti i paesi del mondo. Ogni cosa gli era famigliare, e
al primo colpo d'occhio riconosceva il secolo, il paese,
l'origine. Morcerf aveva creduto di dover tutto spiegare, ed al
contrario faceva sotto la direzione del conte un corso completo di
archeologia, mineralogia, e storia naturale.
Discesero quindi al primo piano.
Alberto introdusse il suo ospite nella sala da ricevimento,
tappezzata di capolavori dei moderni pittori. V'erano paesaggi di
Dupré dai lunghi canneti, gli alberi slanciati, le vacche che
pascolavano sotto un cielo stupendo; cavalieri arabi di Delacroix
coi lunghi bornous bianchi, i cinti brillantati, le armi
damaschine, i cavalli che si mordevano con rabbia, mentre gli
uomini si laceravano colla mazza di ferro; vi erano acquarelli di
Boulanger, che rappresentavano tutti Notre-Dame di Parigi con un
vigore degno d'un poeta; quadri di Dias che fa i fiori più belli
dei fiori, il sole più brillante del sole; disegni di Duchamp
coloriti quanto quelli di Salvator Rosa, ma più poetici; quadri a
pastello di Giraud e di Muller che rappresentavano fanciulli colle
teste da angeli, e donne colle sembianze di vergini; abbozzi tolti
dall'album di Dauzats nel suo viaggio in Oriente, fatti colla
matita, in pochi secondi stando o sulla sella di un cammello, o
sulla cupola di una moschea: finalmente tutto ciò che l'arte
moderna può dare in cambio ed in compenso dell'arte perduta dei
secoli passati.
Alberto supponeva di potere, almeno questa volta, mostrare qualche
cosa di nuovo al suo strano viaggiatore ma con sua grande sorpresa
questi, senza aver bisogno di guardare le firme, di cui alcune
segnate soltanto colle iniziali, a ciascun'opera assegnava il nome
dell'autore, e in modo tale che era facile accorgersi che, non
solo gli erano noti i nomi di questi autori, ma che le loro opere
erano state studiate ed apprezzate giustamente da lui.
Da questa sala si passò alla camera da letto.
Era un modello di eleganza e di gusto severo: là non c'era che un
solo ritratto, ma firmato col nome di Leopoldo Robert,
risplendente in una cornice d'oro massiccia.
Questo quadro attirò subito l'attenzione del conte, perché fece
subito tre passi rapidi ed andò a fermarsi davanti ad esso.
Era quello di una donna giovane di venticinque-ventisei anni col
colorito bianco, sguardo acuto, velato sotto una palpebra
languente; portava il costume pittoresco delle pescatrici catalane
colla giubba rossa e nera, e gli spilli faccettati nei capelli;
guardava il mare, e l'elegante profilo si staccava sopra il doppio
azzurro delle onde e del cielo.
La luce della camera era fioca, se no Alberto si sarebbe accorto
del pallore livido sulle guance del conte, ed avrebbe scoperto il
fremito che gli sfiorò le spalle ed il petto.
Vi fu un momento di silenzio, nel quale Montecristo restò fisso
coll'occhio sulla pittura.
"Voi avete qui una bella amica, visconte" disse Montecristo con
una voce perfettamente tranquilla, "e questo costume, certamente
da ballo, le sta a meraviglia."
"Ah, signore, ecco uno sbaglio che non vi perdonerei, se vicino a
questo ritratto ne aveste veduto qualche altro. Voi non conoscete
mia madre, signore; è lei che vedete in questo quadro. Si fece
ritrarre così sette o otto anni fa. Questo costume è di fantasia,
a quanto pare, e la somiglianza è tanto grande, che mi pare sempre
di vedere mia madre quale era nel 1830. La contessa fece fare
questo ritratto in assenza del conte. Senza dubbio credeva di
preparargli una dolce sorpresa per il ritorno. Ma, cosa bizzarra,
questo ritratto dispiacque a mio padre; e il merito della pittura,
che come vedete è una delle più belle opere di Leopoldo Robert,
non poté vincerla sulla sua antipatia. E' vero, sia detto fra noi,
mio caro signor conte, che mio padre è uno dei pari più assidui al
Lussemburgo, un generale rinomato per la strategia, ma è un
conoscitore d'arte dei più mediocri. Non così però mia madre, che
dipinge in un modo notevole, e che, stimando troppo questo lavoro
per separarsene del tutto, l'ha regalato a me, perché qui fosse
meno esposto a dispiacere al signor Morcerf, di cui vi farò vedere
a suo tempo il ritratto dipinto da Gras.
"Perdonatemi se vi parlo in tal modo di cose intime di famiglia;
ma siccome avrò l'onore di presentarvi fra momenti al conte, vi
dico tutto ciò, perché non vi abbia a sfuggire qualche elogio di
questo quadro in sua presenza. Del resto però, il quadro ha una
ben triste influenza: è difficile che mia madre venga in camera
mia senza fermarsi a contemplarlo, e più difficile ancora che lo
contempli senza piangere. La nube che portò questa pittura in
famiglia, è del resto la sola che sia insorta fra il conte e la
contessa, che, sebbene maritati da più di venti anni, sono uniti
come se fosse il primo giorno."
Montecristo vibrò una rapida occhiata ad Alberto, come per cercare
un fine nascosto nelle sue parole, ma era evidente che il giovane
le aveva pronunciate con tutta semplicità.
"Ora" disse Alberto, "avete visto tutte le mia ricchezze, signor
conte, e permettetemi di offrirvele, per quanto siano indegne di
voi... Consideratevi come in casa vostra, e per mettervi ancora a
maggior comodo vostro, abbiate la bontà di accompagnarmi dal
signor de Morcerf, mio padre, al quale scrissi da Roma il favore
che mi avete reso, ed ho annunziata la visita che mi avevate
promessa, e, posso assicurarvene, il conte e la contessa aspettano
con impazienza che sia permesso loro di ringraziarvene. Siete un
poco singolare in tutte le cose, lo so, signor conte, e forse le
scene di famiglia non hanno molta attrazione per Sindbad il
marinaio: siete abituato a tutt'altre scene! Però accettate ciò
che vi propongo come iniziazione alla vita parigina, vita di
cortesie, di visite e di presentazioni."
Montecristo s'inchinò senza rispondere: accettò la proposta senza
entusiasmo e senza rincrescimento, come una di quelle convenienze
sociali, di cui ciascun uomo perbene si fa un dovere.
Alberto chiamò il cameriere, e gli ordinò d'andare a prevenire il
signore e la signora de Morcerf del prossimo arrivo del conte di
Montecristo.
Alberto lo seguì col conte.
Giungendo nell'anticamera del conte, si vedeva, al disopra della
porta che metteva nel salotto, uno scudo, che dai ricchi fregi che
lo circondavano, e dall'armonia cogli arredi della stanza,
rivelava in quanto conto fosse tenuto.
Montecristo si fermò davanti a questo blasone e lo esaminò con
attenzione. Sette merli d'oro a stormo, in campo azzurro.
"Questa senza dubbio è l'arme della vostra famiglia?" domandò.
"Escludendo le parti del blasone che mi permettono di decifrarlo,
sono molto ignorante in materia araldica. Io sono conte per caso,
fatto in Toscana per aver formata una commenda di Santo Stefano, e
mi sarei contentato d'essere semplicemente un gran signore, se non
mi si fosse più volte ripetuto che, per uno che viaggia molto, un
titolo è cosa necessaria. In pratica portare un arme allo
sportello della carrozza è cosa molto utile, non fosse altro che
per non essere visitati dai doganieri. Scusatemi dunque se vi ho
fatta questa domanda."
"Essa non è affatto indiscreta" disse Morcerf colla semplicità
della convinzione, "e avete colto nel vero: queste sono le nostre
armi, vale a dire, quelle del capo della famiglia, di mio padre...
Ma, come vedete, sono inquartate con altro scudo con torri
d'argento in campo rosso e che proviene dal capo della famiglia di
mia madre. Dal lato di donna io sono spagnolo, ma la famiglia
Morcerf è francese, e, a quanto ho inteso dire ancora una delle
più antiche del mezzodì della Francia."
"Sì" confermò Montecristo, "è quello che viene indicato dai merli.
Quasi tutti i pellegrini armati che tentarono o fecero la
conquista della Terra Santa, presero per loro armi, o croci,
simbolo della missione alla quale si erano votati, o uccelli di
passaggio, simbolo del lungo viaggio che imprendevano...
Supponendo che fosse il tempo di San Luigi, ciò vi fa risalire al
dodicesimo secolo, il che è un altro pregio."
"Ciò è possibile" disse Morcerf, "in un angolo dell'ufficio di mio
padre vi è un albero genealogico che illustra tutto ciò, e sul
quale in altri tempi ho scritto dei commentari che avrebbero
soddisfatto d'Ozier e Jaucour. Ora non ci penso più, e tuttavia vi
dirò, signor conte, e questo rientra nelle mie attribuzioni di
cicerone, che già cominciano di nuovo ad occuparsi di queste cose
sotto il nostro governo popolare."
"Ebbene, allora il vostro governo dovrebbe scegliere nel suo
passato qualche cosa di meglio che quelle due tavole che ho vedute
sui vostri monumenti, e che non hanno alcun senso araldico. Quanto
a voi, visconte" riprese Montecristo ritornando a Morcerf, "siete
più fortunato del vostro governo, perché le vostre armi sono
veramente belle e parlano all'immaginazione. Sì, voi siete ad un
tempo di Provenza e di Spagna, e ciò mi spiega (se il ritratto che
mi avete mostrato è rassomigliante) il color bruno che tanto
ammirai sul viso della nobile catalana."
Sarebbe occorso essere Edipo, o la stessa sfinge per indovinare
l'ironia che mise il conte in queste parole, coperte in apparenza
dalla maggior gentilezza; per cui Morcerf lo ringraziò con un
sorriso, e, passando prima per fargli strada, spinse la porta che,
come si disse, metteva nel salotto da ricevimento.
Nel luogo più esposto di questo salotto si vedeva ugualmente un
ritratto; quello di un uomo dai trentacinque ai quaranta anni
vestito coll'uniforme di generale, portando la doppia spallina
particolare ai gradi superiori, la decorazione da commendatore
della Legion d'Onore al collo, e sul petto, a dritta, la placca di
Grande ufficiale dell'ordine del Salvatore, a sinistra quella di
Gran Croce dell'ordine di Carlo Terzo. Quindi la persona
rappresentata da questo ritratto aveva fatto le guerre di Grecia e
di Spagna, o, ciò che è lo stesso in materia di decorazioni, aveva
adempiuto qualche missione diplomatica nei due paesi.
Montecristo era occupato a guardare questo ritratto con non minore
attenzione di quel che aveva fatto coll'altro, quando la porta
laterale si aprì, ed egli si trovò in faccia al conte di Morcerf
in persona.
Era un uomo fra i quaranta quarantacinque anni, ma ne dimostrava
almeno cinquanta, i cui baffi e sopraccigli nerissimi
contrastavano stranamente coi capelli quasi bianchi tagliati corti
a spazzola secondo l'uso militare.
Era vestito da borghese, e portava all'occhiello un nastro le cui
strisce a diversi colori indicavano i vari ordini di cui era
decorato. Questo uomo entrò con passo nobile ma con una specie di
fretta.
Montecristo l'osservò senza muover passo; si sarebbe detto che i
piedi erano inchiodati al pavimento e gli occhi sul viso del
conte.
"Padre mio" disse il giovane, "ho l'onore di presentarvi il signor
conte di Montecristo, quel generoso amico che ho avuto la fortuna
d'incontrare nelle difficili situazioni che sapete."
"Signore, voi siete il benvenuto fra noi" disse il conte di
Morcerf, salutando Montecristo con un sorriso. "Nel salvare alla
mia famiglia l'unico suo erede, avete reso alla nostra casa un
servigio che vi merita la nostra eterna riconoscenza."
Dicendo queste parole il conte di Morcerf indicava una seggiola a
braccioli a Montecristo, nel medesimo tempo ch'egli stesso si
sedeva in faccia alla finestra.
Quanto a Montecristo, prendendo la seggiola indicata dal conte di
Morcerf, si situò in modo da rimanere nascosto nell'ombra delle
grandi tende di velluto, per leggere di là sui tratti del conte,
in ciascuna ruga del suo volto.
"La contessa" disse Morcerf, "era alla toilette quando il visconte
l'ha fatta avvertire della visita che avrebbe avuto l'onore di
ricevere; sta per scendere, e fra dieci minuti sarà in salotto."
"E' molto onore per me" disse Montecristo, "essere messo in
rapporto, fin dal primo giorno in cui sono a Parigi, con un uomo
il cui merito è eguale alla reputazione, e per il quale la
fortuna, giusta questa volta, non ha commesso errore... Ma non ha,
la sorte, nelle pianure di Mitidjia o nelle montagne dell'Atlante
un bastone da Maresciallo da offrirvi?"
"Oh!" replicò Morcerf arrossendo un poco, "io ho lasciato il
servizio, signore. Nominato Pari sotto la restaurazione, ero nella
prima campagna, e servivo agli ordini del maresciallo Bourmont.
Potevo dunque pretendere un comando superiore? E chi sa ciò che
sarebbe accaduto, se la dinastia primogenita rimaneva sul trono?
Ma la rivoluzione di luglio, a quanto sembra, era abbastanza
gloriosa per potersi permettere d'essere ingrata, e lo fu per
tutti i servigi che non portavano la data del periodo imperiale.
Chiesi dunque la dimissione, perché quando uno ha guadagnato come
me le spalline sul campo di battaglia, non sa ugualmente manovrare
sul terreno sdrucciolevole delle sale. Ho lasciata la spada, e mi
sono ingolfato nella politica; mi dedico all'industria e studio le
arti utili. Nei vent'anni che sono rimasto in servizio ne avevo il
desiderio, ma non ne avevo avuto il tempo."
"Sono queste idee che dimostrano la superiorità della vostra
nazione sugli altri paesi, signore" rispose Montecristo.
"Gentiluomo, uscito da una gran famiglia, possedendo una bella
fortuna avete sulle prime voluto acquistarvi i primi gradi come
oscuro soldato, la qual cosa è molto rara; quindi divenuto
generale, Pari di Francia, commendatore della Legion d'Onore,
acconsentite ad incominciare un secondo noviziato, senz'altra
ricompensa che quella d'essere un giorno utile ai vostri simili...
Ah! signore, ecco quello che può veramente dirsi bello; dirò anche
più, sublime."
Alberto guardava ed ascoltava Montecristo con meraviglia: non era
avvezzo a vederlo alzarsi a simili entusiasmi.
"Ahimè" continuò lo straniero, senza dubbio per far sparire
l'impercettibile nube che era passata sulla fronte di Morcerf,
"noi non facciamo così; cresciamo secondo la nostra razza e la
nostra specie, e conserviamo la stessa corteccia, la stessa
dimensione, e dirò ancora la stessa inutilità per tutta la nostra
vita."
"Ma, signore, per un uomo del vostro merito, l'Italia non può
essere sua patria, e la Francia vi apre le braccia; corrispondete
alla sua chiamata, la Francia forse non sarà ingrata con tutti;
essa è accostumata ad accogliere generosamente gli stranieri."
"Eh, padre mio, si vede bene che non conoscete il conte di
Montecristo. Le sue soddisfazioni sono al di fuori di questo
mondo, egli non aspira agli onori, e ne prende soltanto quanti ne
possono stare sul suo passaporto."
"Ecco l'espressione più giusta che abbia mai intesa sul conto mio"
rispose lo straniero.
"Il signore è stato padrone del suo avvenire, ecco perché ha
scelto un sentiero di fiori" disse sospirando de Morcerf.
"Precisamente, signore" replicò Montecristo con uno di quei
sorrisi che un pittore non potrà mai riprodurre, e che un
fisiologo sarebbe disperato ad analizzare.
"Se non avessi avuto timore di stancare il signor conte" disse il
generale evidentemente lusingato dalle parole di Montecristo, "lo
avrei condotto alla Camera; oggi vi è una seduta curiosa per chi
non conosce i nostri moderni senatori."
"Vi sarei molto riconoscente se vorreste rinnovarmi questa offerta
un'altra volta; ma oggi sono stato lusingato dalla speranza di
esser presentato alla signora contessa, ed aspetterò."
"Ah! ecco appunto mia madre" esclamò Alberto.
Difatti Montecristo volgendosi velocemente vide la signora de
Morcerf sul limitare della porta opposta a quella per cui era
entrato il marito immobile e pallida; appena Montecristo si volse
dalla sua parte, lasciò cadere il braccio che, non si sa perché,
s'era appoggiato alla maniglia dorata; stava là, da qualche
secondo, ed aveva intese le ultime parole pronunciate dal
viaggiatore oltremontano.
Questi si alzò e salutò profondamente la contessa, che s'inchinò
anch'essa, muta e cerimoniosa.
"Eh, mio Dio, signora che avete?" domandò il conte. "Sarebbe forse
il calore di questo salotto che vi fa male?"
"State poco bene, madre mia?" gridò il visconte lanciandosi
incontro a Mercedes.
Lei li ringraziò entrambi con un sorriso.
"No" disse, "ma ho provato una certa emozione nel vedere per la
prima volta colui senza il cui aiuto ora saremmo immersi nelle
lacrime e nel lutto. Signore" continuò la contessa, avanzandosi
colla maestà di una regina, "vi debbo la vita di mio figlio, e per
questo vi benedico. Ora vi sono grata del piacere che mi procurate
offrendomi l'occasione di ringraziarvi con tutto il cuore."
Il conte s'inchinò, ma più profondamente della prima volta, era
ancora più pallido di Mercedes.
"Signora" disse, "il signor conte e voi mi ringraziate troppo per
un azione semplicissima. Salvare un uomo, risparmiare un tormento
al padre, risparmiare la sensibilità di una donna, ciò non si
chiama fare un'opera buona, ma fare un atto di umanità."
A queste parole pronunciate con dolcezza, e con squisita
gentilezza, la signora de Morcerf rispose con accento profondo:
"E' una fortuna per mio figlio l'avervi per amico, e ringrazio Dio
che ha in tal modo disposte le cose."
E Mercedes alzò gli occhi al cielo con una gratitudine così
infinita, che al conte parve di vedere tremolare due lacrime.
Il signor de Morcerf si avvicinò a lei:
"Signora, ho già fatto le mie scuse al signor conte per essere
obbligato a lasciarlo: vi prego di rinnovarle. La seduta si è
aperta alle due, ora sono le tre, ed io sono obbligato a parlare."
"Andate, signore; cercherò di far dimenticare la vostra assenza al
nostro ospite" disse la contessa collo stesso accento di
sensibilità. "Il signor conte" proseguì la contessa volgendosi a
Montecristo, "vorrà farci la grazia di passare il resto del giorno
con noi?"
"Grazie, signora, sono, credetelo, riconoscente nel modo più
profondo alla vostra offerta; ma questa mattina sono sceso dalla
carrozza da viaggio alla vostra porta. Non so come sia installato
a Parigi; e il dove mi è appena noto. E' una inquietudine leggera,
lo so, non pertanto è da considerarsi."
"Avremo questo piacere un'altra volta, almeno: ce lo promettete?"
domandò la contessa.
Montecristo s'inchinò senza rispondere, ma il gesto poteva passare
per un consenso.
"Allora non vi trattengo, signore" disse la contessa, "poiché non
voglio che la mia riconoscenza divenga o una importunità, o una
indiscrezione."
"Mio caro conte" disse Alberto, "se lo volete, cercherò di
corrispondere alla vostra cortesia di Roma col mettere la mia
carrozza a vostra disposizione, fino a che abbiate avuto il tempo
di provvedervi del vostro equipaggio."
"Mille grazie alla vostra cortese offerta, visconte" disse
Montecristo, "ma presumo che Bertuccio avrà convenientemente
impiegate le quattr'ore che gli ho concesse, e che troverò alla
porta una carrozza qualunque già attaccata."
Alberto era abituato a queste maniere del conte: sapeva che come
Nerone era alla ricerca dell'impossibile, e non si meravigliava
più di nulla; soltanto volle giudicare di persona in qual modo
erano stati eseguiti i suoi ordini, e lo accompagnò sino alla
porta di strada.
Montecristo non s'era sbagliato; appena comparve nell'anticamera
del conte de Morcerf, uno staffiere, lo stesso che a Roma era
venuto a portare il biglietto del conte ai due giovani, ed
annunziar loro la sua visita, si era slanciato fuori del
peristilio, di modo che giungendo al portone, l'illustre
viaggiatore trovò la carrozza che lo aspettava.
Era un coupé della fabbrica di Keller, e due cavalli, per i quali
Drake aveva, come sapevano tutti i lyons di Parigi, rifiutato il
giorno innanzi diciotto mila franchi.
"Signore" disse il conte ad Alberto, "non vi propongo di
accompagnarmi alla mia casa non potrei mostrarvi che una casa
improvvisata... Accordatemi un giorno ed allora permettetemi
d'invitarvi: sarò più sicuro di non mancare alle leggi
dell'ospitalità."
"Se mi chiedete un giorno, signor conte, sono tranquillo: non sarà
più una casa che mi mostrerete, ma un palazzo. Voi dovete avere
qualche genio a vostra disposizione."
"In fede mia, continuate a crederlo" disse Montecristo, mettendo
il piede sul montatoio in velluto del suo splendido equipaggio,
"ciò potrà essermi utile, signore."
E si lanciò nella carrozza, che si chiuse dietro a lui e partì al
galoppo ma non tanto rapidamente che il conte non potesse
accorgersi del movimento impercettibile che mosse la tenda del
salotto ove aveva lasciata la signora de Morcerf.
Quando Alberto ritornò da sua madre, ritrovò la contessa nel
salotto gettata sopra un seggiolone di velluto; tutta la stanza
essendo nell'ombra, non lasciava scorgere che la foglietta d'oro
sfavillante, attaccata qua e là o sul corpo di qualche vaso, o
agli angoli di qualche quadro.
Alberto non poté vedere il volto della contessa nascosto sotto la
nube del velo che le circondava la testa come un'aureola di
vapore, ma gli sembrò che la voce fosse alterata; distinse ancora
fra gli odori di rose e vainiglie della giardiniera la traccia
aspra e mordente del sale d'aceto sopra una delle tazze cesellate
del caminetto, infatti la boccettina della contessa, tolta dal suo
astuccio di velluto, attirò l'inquieta attenzione del giovane.
"Soffrite, madre mia" gridò entrando, "o vi sareste sentita male
mentre io non c'ero?"
"Io? No, Alberto, ma queste rose, queste tuberose, questi fiori
d'arancio nauseano nei primi calori, quando non si è ancora
abituati a violenti profumi..."
"Allora, madre mia" disse Alberto portando la mano al campanello,
"bisogna farli portare nella vostra anticamera: siete veramente
indisposta; anche poco fa, quando entraste, eravate molto
pallida."
"Ero pallida, dite voi, Alberto?"
"Di un pallore che vi sta a meraviglia, madre mia, ma che però non
ha spaventato meno mio padre e me."
"Vostro padre ve ne ha parlato?" domandò vivamente Mercedes.
"No, signora, ma fu a voi stessa che diresse questa osservazione."
"Non me ne ricordo..." disse la contessa.
Entrò un cameriere, chiamato dal suono del campanello tirato da
Alberto.
"Portate questi fiori in anticamera, o nel salotto della toilette"
disse il visconte, "fanno male alla signora contessa."
Il cameriere obbedì.
Vi fu un silenzio abbastanza lungo, che durò tutto il tempo che il
cameriere provvedeva a portar via i fiori.
"Qual nome è mai questo di Montecristo?" chiese la contessa,
quando il domestico uscì portando via l'ultimo vaso di fiori. "E'
il nome di una terra o un semplice titolo?"
"Questo è, credo, un titolo, madre mia, e niente più. Il conte ha
comprato un'isola nell'arcipelago toscano, ed ha, per quanto ha
detto egli stesso questa mattina, fondato una commenda. Voi sapete
che ciò si usa per Santo Stefano di Firenze per San Gregorio
Costantiniano di Parma ed anche per l'ordine di Malta. Del resto
non ha alcuna pretesa di nobiltà, e si chiama conte per caso,
quantunque l'opinione generale di Roma fosse che il conte sia un
gran signore."
"I suoi modi sono eccellenti, per quanto ho potuto giudicare nei
pochi momenti che si è trattenuto."
"Oh! perfetti, madre mia, anzi tanto perfetti, che sorpassano
molto tutto ciò che ho conosciuto di più aristocratico nelle tre
nobiltà più orgogliose d'Europa, cioè nella nobiltà inglese,
spagnola e germanica."
La contessa rifletté un momento, poi dopo una breve esitazione
riprese:
"Avete visto, mio caro Alberto... questa è una domanda da madre
che vi faccio, lo capirete... avete visto il signor di Montecristo
nel profondo? Voi avete della perspicacia, voi avete uso di mondo,
e un tatto maggiore di quello che d'ordinario si ha alla vostra
età... Credete che il conte sia quello che appare essere?"
"Come, appare?"
"Voi stesso lo avete detto, non ha pari... un gran signore."
"Vi ho detto, madre mia, ch'egli era ritenuto per tale."
"Ma che ne pensate voi?"
"Io non ho, ve lo confesso, un'opinione precisa su di lui: lo
credo maltese."
"Io non vi chiedo della sua origine, ma della sua persona."
"Ah la sua persona è tutt'altro! Ho viste tante cose strane di
lui, che se voleste vi dicessi ciò che ne penso, vi risponderei
che lo considero come uno degli uomini alla Byron, che la
disgrazia ha marcati col suggello fatale; qualche Manfredo,
qualche Lara, qualche Werner, uno di quegli avanzi di vecchia
famiglia che, diseredati dalla fortuna paterna, ne hanno ritrovato
una colla forza del loro genio avventuroso che li ha posto al di
sopra delle leggi della società... Dico che Montecristo è un'isola
in mezzo al Mediterraneo, senza abitanti, senza guarnigione, asilo
di contrabbandieri di tutte le nazioni, di pirati di tutti i
paesi. Chi sa che questi degni trafficanti non paghino al loro
signore il diritto di asilo."
"E' possibile..." disse la contessa distratta.
"Ma non importa" riprese il giovane, "contrabbandiere o no, ne
converrete madre mia (perché l'avete veduto), il signor conte di
Montecristo è un uomo notevole, ed avrà i più grandi successi
nelle sale di Parigi. E questa mattina da me ha incominciato il
suo ingresso nel mondo destando in tutti ammirazione, perfino in
Chateau-Renaud."
"E che età potrà avere il conte?" chiese Mercedes, dando
visibilmente grande importanza a questa domanda.
"Avrà trentacinque o trentasei anni, madre mia."
"Così giovane? E' possibile!" disse Mercedes, rispondendo
contemporaneamente a ciò che le diceva Alberto, e a ciò che le
diceva il proprio pensiero.
"Eppure questa è la verità. Tre o quattro volte mi ha detto, e
certamente senza premeditazione, alla tal'epoca avevo cinque anni,
alla tal'altra dodici. Io che ero all'erta su questi particolari,
ho ravvicinato le date, e non l'ho mai trovato in fallo. L'età di
quest'uomo singolare, che non ha età, è dunque, ne sono sicuro, di
trentacinque anni. In più, ricordatevi, madre mia, quanto è vivace
il suo sguardo, come sono neri i capelli, e come la fronte,
sebbene pallida, è esente da rughe; questa è una natura non solo
vigorosa, ma giovane."
La contessa abbassò il capo come sotto un'onda troppo pesante di
amari pensieri.
"E quest'uomo ha stretta amicizia con voi?" domandò con un fremito
nervoso.
"Lo credo, madre mia."
"E voi... lo amate ugualmente?"
"Egli mi piace, checché ne dica Franz d'Epinay, che lo voleva far
comparire ai miei occhi come un uomo uscito dall'altro mondo."
La contessa fece un movimento di terrore.
"Alberto" disse con voce alterata, "io vi ho sempre messo in
guardia contro le nuove conoscenze. Ora siete un uomo, e potreste
dar consigli a me, tuttavia vi ripeto: "Siate prudente, Alberto."
"Mia cara madre, perché il consiglio fosse profittevole,
bisognerebbe che sapessi di che cosa debbo non fidarmi. Il conte
non gioca mai, il conte non beve che dell'acqua dorata con qualche
goccia di vino di Spagna, il conte si è rivelato tanto ricco, che
non potrebbe chiedermi in prestito del danaro senza esporsi a
farsi ridere sul naso... Che volete dunque che io tema da parte
del conte?"
"Voi avete ragione" disse la contessa, "ed i miei timori sono
folli particolarmente per un uomo che vi ha salvata la vita. A
proposito, Alberto, vostro padre lo ha ricevuto bene? E'
necessario che noi siamo più che ospitali col conte. Il signor de
Morcerf qualche volta è preoccupato, i suoi affari lo rendono
distratto, e potrebbe darsi, senza volerlo..."
"Mio padre si è condotto perfettamente" interruppe Alberto, "dirò
di più, è sembrato grandemente lusingato dei due o tre complimenti
accorti che il conte gli ha fatto tanto fortuitamente quanto a
proposito, come se lo avesse conosciuto da trent'anni. Ciascuna di
queste piccole frecce di lode ha dovuto solleticare mio padre"
soggiunse Alberto ridendo, "poiché si sono lasciati come i due più
grandi amici del mondo, ed il signor de Morcerf lo voleva perfino
condurre alla Camera per fargli sentire il suo discorso."
La contessa non rispose: era assorta in una riflessione così
profonda, che i suoi occhi si erano chiusi a poco a poco.
Il giovane in piedi dinanzi a lei, la guardava con quell'amor
filiale che è ancor più tenero e più affettuoso nei figli, le cui
madri sono ancora giovani e belle; poi, dopo aver visto gli occhi
di lei chiudersi, l'ascoltò respirare un momento nella sua dolce
immobilità, e credendola assopita si allontanò in punta di piedi,
chiudendo con cautela la porta della stanza dove lasciava sua
madre.
"Che diavolo d'uomo!" mormorò scuotendo la testa, "gli avevo ben
predetto laggiù che avrebbe fatto gran sensazione nel nostro
mondo; io ne calcolo l'effetto su di un termometro infallibile.
Mia madre lo ha rimarcato, dunque bisogna dire ch'egli sia
notevole."
Discese nelle scuderie, non senza un segreto dispetto, perché il
conte di Montecristo si era provveduto d'una pariglia, che
relegava i cavalli di Alberto in secondo piano agli occhi degli
intenditori.
"Davvero" disse, "gli uomini non sono tutti eguali."
Capitolo 41.
BERTUCCIO.
In quel mentre il conte era giunto alla sua abitazione. Aveva
impiegati sei minuti a percorrere la distanza, sufficienti perché
fosse visto da una ventina di giovani che, conoscendo il prezzo
dell'equipaggio, avevano messe le loro cavalcature al galoppo, per
vedere lo splendido signore che aveva cavalli da diecimila franchi
l'uno.
La casa scelta da Alì, e che doveva servire da residenza in città
a Montecristo, era situata a destra salendo agli Champs-Elysées,
con un bel cortile e un giardino. Un gruppo di ramosi alberi
s'innalzava in mezzo al cortile, copriva una parte della facciata;
ai lati di questi alberi passavano due viali che dal cancello
portavano le carrozze ad una doppia scalinata, ornata su ogni
gradino da un vaso di porcellana pieno di fiori.
Questa casa, isolata nel centro di un vasto spazio, oltre
l'ingresso principale, aveva pure un'altra entrata sulla rue
Ponthieu.
Prima ancora che il cocchiere avesse data la voce al portinaio, il
robusto cancello girò sui gangheri: era stato veduto giungere il
conte, ed a Parigi, come a Roma, e come ovunque era servito colla
rapidità del fulmine.
Il cocchiere dunque entrò, descrisse il mezzo cerchio senza
rallentare la corsa, ed il cancello era già rinchiuso, quando le
ruote rumoreggiavano ancora sulla sabbia del viale.
La carrozza si fermò alla parte sinistra della scalinata, due
uomini comparvero allo sportello; uno era Alì, che sorrise al suo
padrone con una incredibile gioia, e che si trovò pago di un
semplice sguardo di Montecristo, l'altro salutò umilmente, ed
offrì il braccio al conte per aiutarlo a discendere dalla
carrozza.
"Grazie, Bertuccio" disse il conte, saltando leggermente i tre
scalini. "E il notaio?"
"E' nel salotto, Eccellenza" rispose Bertuccio.
"Ed i biglietti da visita che ho ordinato di fare stampare, appena
avuto il numero della casa?"
"Signor conte, è fatto tutto; sono stato dal migliore incisore del
Palazzo Reale, che ha eseguito il rame in mia presenza, e tirato
il primo biglietto, secondo i vostri ordini. Subito questo
biglietto fu portato al signor Danglars, rue Chaussée d'Antin
numero 7; gli altri sono sul caminetto della camera da letto di
Vostra Eccellenza."
"Va bene: che ore sono?"
"Le quattro."
Montecristo consegnò il cappello, i guanti, ed il bastone allo
stesso staffiere francese che era corso fuori dall'anticamera del
conte di Morcerf per fare inoltrare la carrozza, quindi passò nel
piccolo salotto, condotto da Bertuccio, che gl'insegnava la
strada.
"Ecco dei mobili mediocri in quest'anticamera, spero bene che ne
verrò presto sbarazzato" disse Montecristo.
Bertuccio s'inchinò.
Come aveva detto l'intendente, il notaio aspettava nel piccolo
salotto.
Era un onesta figura parigina, elevata alla dignità di notaio
distrettuale.
"Il signore è il notaio incaricato di vendere la casa di campagna
che voglio comprare?" domandò Montecristo.
"Sì, signor conte" rispose il notaio.
"L'atto di vendita è steso?"
"Sì, signor conte."
"Lo avete con voi?"
"Eccolo qui."
"Perfettamente."
"E dove è situata questa casa che compro?" domandò negligentemente
Montecristo per metà al notaio e per metà a Bertuccio.
Il notaio guardò il conte con stupore.
"Come?" disse, "il signor conte non sa dove sia la casa che
compra?"
"No, in fede mia" disse il conte.
"Il signor conte non la conosce?"
"E come diavolo la posso conoscere? Giungo da Cadice questa
mattina non sono mai stato a Parigi, ed è la prima volta che metto
piede in Francia."
"Allora è tutt'altro" rispose il notaio. "La casa che compra il
signor conte è ad Auteuil."
"E dove è Auteuil?" chiese Montecristo.
"A pochi passi da qui, signor conte" disse il notaio, "poco dopo
Passy, in una bellissima posizione, nel centro del Bois de
Boulogne."
"Tanto vicino!" disse Montecristo. "Ma questa non è campagna. Come
diavolo siete andato a scegliermi una casa alle porte di Parigi,
Bertuccio?"
"Io" gridò l'intendente con una strana sollecitudine, "no
certamente non sono stato io l'incaricato del signor conte per
pigliare una casa; prego il signor conte di ricordarsene bene, e
richiamare i suoi ricordi."
"Ah, è giusto" disse Montecristo, "ora ricordo, ho letto
quest'annuncio in un giornale, e mi sono lasciato sedurre dalla
falsa menzione "casa di campagna"."
"Siete ancora in tempo" disse con vivacità Bertuccio, "e se Vostra
Eccellenza vuole incaricarmi di cercare un altro luogo, troverò
ciò che vi ha di meglio, sia ad Enghien, sia a Fontenay-aux-Roses,
sia a Bellevue."
"No, in fede mia" disse con noncuranza Montecristo, "poiché ho
questa, la conserverò."
"Il signore ha ragione" disse subito il notaio che temeva di
perdere i suoi guadagni, "questa è una graziosa proprietà: acque
vive, boschi folti, abitazione gradevole, quantunque abbandonata
da lungo tempo, senza calcolare la mobilia, che, sebbene vecchia,
ha del valore, particolarmente oggi che si cercano le anticaglie."
"Dunque è conveniente?" soggiunse Montecristo.
"Ah, signore, è ancora meglio, è magnifica!"
"Presto! non ci lasciamo sfuggire l'occasione" disse Montecristo.
"Il contratto, signor notaio?"
E sottoscrisse, dopo aver data un'occhiata nella parte dell'atto
ove stavano segnati i nomi dei proprietari, e la situazione della
villa.
"Bertuccio" diss'egli, "date cinquantacinquemila franchi al
signore."
L'intendente uscì con passo incerto, e ritornò con un pacchetto di
biglietti di banca che il notaio contò al modo degli uomini che
hanno ogni giorno a che fare col danaro.
"Ed ora" domandò il conte, "sono adempiute tutte le formalità?"
"Tutte, signor conte."
"Avete le chiavi?"
"Sono nelle mani del portinaio che custodisce la casa; ma ecco
l'ordine che gli ho dato di installare il signore nella sua nuova
proprietà."
"Va benissimo."
E Montecristo fece al notaio un segno colla testa, che voleva
dire: "Signore, non ho più bisogno di voi, andatevene".
"Ma" disse l'onesto notaio, "mi sembra che il signor conte si sia
sbagliato; non sono che cinquantamila franchi tutto compreso."
"E i vostri onorari?"
"Vengono pagati colla stessa somma, signor conte."
"Ma non siete venuto qui da Auteuil?"
"Sì, senza dubbio."
"Ebbene, bisogna compensare il vostro incomodo" disse il conte. E
lo congedò con un gesto.
Il notaio uscì andando all'indietro, e salutando fino a terra; era
la prima volta, dal giorno in cui aveva presa la licenza, che
trovava un simile cliente.
"Accompagnate il signore" disse il conte a Bertuccio.
E l'intendente uscì dietro il notaio.
Appena il conte fu solo, cavò di tasca un portafogli con
serratura, lo aprì con una chiavetta che portava al collo, e che
non lasciava mai.
Dopo aver cercato un momento, si fermò sopra un foglietto su cui
erano segnate alcune annotazioni, le confrontò coll'atto di
vendita deposto sulla tavola, e raccogliendo la memoria:
"Auteuil, rue Fontaine 28; è questa" disse, "ora mi debbo attenere
ad una confessione ottenuta per mezzo del rimorso religioso, o
strappata dal terrore fisico? Del resto, fra un'ora saprò tutto.
Bertuccio!" gridò battendo un colpo con una specie di piccolo
martello a manico elastico sopra un campanello, che rese un suono
acuto e prolungato simile a quello del gong.
L'intendente comparve sulla soglia.
"Bertuccio, non mi avete detto una volta di aver viaggiato in
Francia?"
"In alcune parti della Francia sì, Eccellenza."
"Conoscerete senza dubbio i dintorni di Parigi?"
"No, Eccellenza, no" rispose l'intendente con una specie di
tremito nervoso, che Montecristo, grande conoscitore in fatto di
emozioni, attribuì con ragione ad una viva inquietudine.
"Mi rincresce che non abbiate visitati i dintorni di Parigi,
perché voglio questa stessa sera vedere la mia nuova proprietà, e
venendo con me, mi avreste dato senza dubbio utili informazioni."
"Ad Auteuil!" gridò Bertuccio, il cui viso color rame divenne
quasi livido, "io andare ad Auteuil!"
"Ebbene, che c'è di strano che veniate ad Auteuil? Quando io
dimorerò ad Auteuil, bisognerà bene che ci veniate, giacché fate
parte della famiglia."
Bertuccio abbassò la testa davanti allo sguardo imperioso del
padrone restò immobile, e senza rispondere.
"Ebbene, che vi accade? Mi obbligherete dunque a suonare una
seconda volta per la carrozza?" disse Montecristo col tono con cui
Luigi Quattordicesimo pronunciò il suo famoso: "Poco è mancato che
io non aspettassi!".
Bertuccio fece un balzo dal piccolo salotto all'anticamera, e
gridò con voce rauca:
"I cavalli di Sua Eccellenza."
Montecristo scrisse due o tre lettere, e mentre sigillava
l'ultima, l'intendente ricomparve.
"La carrozza di Sua Eccellenza è alla porta" disse.
"Ebbene, prendete i vostri guanti ed il cappello."
"E' dunque vero che vengo con Vostra Eccellenza" gridò Bertuccio.
"Senza dubbio, bisogna bene che diate i vostri ordini mentre conto
d'abitare quella casa."
Sarebbe stata senza precedenti una replica a ciò che comandava il
conte; per cui l'intendente, senza fare alcuna obiezione, seguì il
padrone che montò in carrozza, e gli fece segno di fare
altrettanto.
L'intendente si assise rispettosamente sul sedile davanti.
Capitolo 42.
LA CASA DI AUTEUIL.
Montecristo aveva osservato, nel discendere la scalinata, che
Bertuccio si era segnato al modo dei corsi, vale a dire fendendo
l'aria in croce col pollice, e che prendendo posto nella carrozza
aveva mormorata una breve preghiera.
Ogni altro uomo avrebbe avuto pietà della ripugnanza che il degno
intendente aveva manifestata per questa passeggiata fuori le mura,
ideata dal conte. Ma a ciò che sembrava, questi era troppo curioso
per dispensare Bertuccio da quel piccolo viaggio.
In venti minuti furono ad Auteuil.
L'emozione dell'intendente era sempre crescente.
Nell'entrare nel borgo, Bertuccio raggruppato in un angolo della
carrozza, cominciò a guardare con un'emozione febbrile tutte le
case davanti alle quali passavano.
"Farete fermare a rue Fontaine, 28" disse il conte, fissando senza
pietà lo sguardo sull'intendente al quale dava quest'ordine.
Il sudore grondò dal viso di Bertuccio, che tuttavia obbedì, e
sporgendo fuori della carrozza, gridò al cocchiere:
"Rue Fontaine, 28."
Questo numero 28 era situato all'estremità opposta del sobborgo.
Durante il viaggio era sopraggiunta la notte, o piuttosto una nube
nera carica di elettricità dava a quelle tenebre premature
l'apparenza e la solennità di un episodio drammatico. La carrozza
si fermò, lo staffiere si precipitò allo sportello che aprì.
"Ebbene" disse il conte, "non scendete Bertuccio? Rimarrete in
carrozza? Ma a che diavolo pensate questa sera?"
Bertuccio si precipitò dalla portiera e presentò la spalla al
conte, che questa volta vi si appoggiò, e discese ad uno ad uno i
tre gradini del montatoio.
"Picchiate" disse il conte, "ed annunciatemi."
Bertuccio bussò, la porta si aprì e comparve il portinaio.
"Chi è?" domandò.
"E' il nuovo padrone, brav'uomo" disse lo staffiere e mostrò al
portinaio il biglietto di riconoscimento dato dal notaio.
"La casa è dunque venduta?" domandò il portinaio. "Ed è questo
signore che viene ad abitarla?"
"Sì, amico mio" disse il conte, "farò in modo che non abbiate a
rimpiangere l'antico padrone."
"Ah, signore, non ne ho nostalgia, perché lo vedevamo tanto
raramente... Sono più di cinque anni che non è venuto, ed in fede
mia, ha fatto molto bene a vendere una casa che non gli fruttava
niente."
"Come si chiamava il vostro antico padrone?"
"Il marchese di Saint-Méran. Ah, non ha certamente venduto la casa
per quel che gli costava, ne sono ben sicuro."
"Il marchese di Saint-Méran!" riprese Montecristo. "Mi sembra che
questo nome non mi sia ignoto."
Indi ripeté: "Il marchese di Saint-Méran". E parve cercare nella
sua memoria.
"Un vecchio gentiluomo" continuò il portinaio, "era servitore
fedele dei Borboni, aveva una figlia unica che maritò al signor
Villefort, procuratore del Re a Nimes, e poi a Versailles."
Montecristo vibrò uno sguardo su Bertuccio, che aveva il viso più
livido del muro contro il quale si appoggiava per non cadere.
"E questa figlia non morì?" domandò Montecristo. "Mi sembra di
averlo sentito dire."
"Sì, signore, è già ventun anni; e da allora non abbiamo più
veduto che tre volte il povero marchese."
"Grazie, grazie" disse Montecristo, giudicando dalla prostrazione
dell'intendente di non potere più lungamente toccare quella corda,
senza correre rischio di romperla, "grazie... Datemi un lume,
brav'uomo."
"Vi accompagnerò io, signore."
"No, è inutile. Bertuccio mi farà lume."
E Montecristo accompagnò queste parole col dono di due monete
d'oro, che causarono una esplosione di benedizioni e sospiri.
"Ah, signore" disse il portinaio, dopo aver cercato inutilmente
sulla pietra del caminetto e sui mobili vicini, "la disgrazia è
che qui non ho candelieri."
"Prendete un fanale della carrozza, Bertuccio, e fatemi vedere gli
appartamenti."
L'intendente obbedì, senza osservazioni, ma era facile scorgere,
dal tremito della mano che portava il fanale, ciò che gli costava
obbedire.
Fu percorso un piano terreno molto vasto; un primo piano composto
di un salone, di una stanza da bagno, e due camere da letto; e
giunsero ad una scala a chiocciola che metteva in giardino.
"Osservate! Ecco una scala segreta" disse il conte. "Questa ci fa
molto comodo. Fatemi lume, Bertuccio, andate avanti, e vediamo
dove ci condurrà."
"Signore" disse Bertuccio, "porta al giardino."
"E come lo sapete?"
"Cioè, volevo dire che deve portarvi..."
"Ebbene, assicuriamocene."
Bertuccio mandò un sospiro, e andò avanti.
La scala metteva effettivamente in giardino. Alla porta esterna
l'intendente si fermò.
"Andiamo dunque, Bertuccio..." disse il conte.
Ma Bertuccio era assordito, istupidito, annientato. Gli occhi
stravolti cercavano intorno a lui le tracce di un passato
terribile, e colle mani irrigidite cercava di allontanare degli
spaventosi ricordi.
"Ebbene?" insistette il conte.
"No, no..." gridò Bertuccio, deponendo il fanale in un angolo del
muro interno, "no, signore, non andrò più avanti, è impossibile!"
"Sarebbe a dire?" articolò la voce imperiosa di Montecristo.
"Vedete bene, signore, che questo non è naturale" gridò
l'intendente, "che avendo una casa da comprare a Parigi, voi la
compriate precisamente ad Auteuil, e che comprandola ad Auteuil,
questa casa sia precisamente il numero 28 di rue Fontaine. Ah,
perché mai non vi ho detto tutto laggiù, signore? Voi certamente
non mi avreste ordinato di seguirvi. Io speravo che la casa del
signor conte fosse tutt'altra che questa. Possibile non ci sia
altra casa in Auteuil che quella dell'assassinio!"
"Oh, oh!" disse Montecristo fermandosi. "Che orribile parola avete
pronunciata? Diavolo d'uomo! Corso arrabbiato! Sempre
superstizioni? Vediamo, prendete questo fanale e visitiamo il
giardino; con me, spero che non avrete paura."
Bertuccio raccolse il fanale, ed obbedì.
La porta aprendosi, lasciò vedere un cielo cupo, nel quale la luna
si sforzava invano di lottare contro un mare di nubi che la
coprivano coi loro vapori oscuri; illuminava per un momento, e in
seguito si perdeva più cupa ancora, nel profondo dell'infinito.
L'intendente voleva piegare sulla sinistra.
"No, signore... Perché andate sotto i viali?" disse Montecristo.
"Ecco qui un bel praticello, andiamo diritto."
Bertuccio si asciugò il sudore che gli irrigava la fronte, ma
obbedì; ciò nonostante continuava a tenere sulla sinistra.
Montecristo al contrario piegava a dritta; giunto presso un gruppo
di alberi si fermò.
L'intendente non poté contenersi.
"Allontanatevi, signore, allontanatevi!" gridò. "Voi siete
precisamente sul luogo!"
"E quale luogo?"
"Sul luogo dove cadde."
"Mio caro Bertuccio, ritornate in voi stesso, ve ne esorto, non
siamo qui né a Sartena, né a Corte. Questa non è una macchia, ma